3 marzo 2024

Le "cucize" di Cherso raccontate da chi c'era

La cuciza (kućica) è una piccola costruzione rurale in sassi usata come ricovero temporaneo. Più modesta del kažun dell'Istria del Sud-Ovest.
La cuciza dei borghi isolani è sempre povera, piccola, modesta, precaria, provvisoria. Era inserita in una economia agricola di sussistenza dove gli uomini e gli animali avevano bisogno l'uno all'altro.


Foto di Annamaria Zennaro Marsi. Come si vede non tutte le costruzioni
di servizio ai campi erano a pianta circolare e ben strutturate, come le fa-
mose casite istriane. Specialmente sulle isole erano molto più povere.
Può fungere da rifugio di fortuna anche per l’uomo, come avviene per lo stavolo della Carnia e del Cadore (dal latino stabŭlum).
E' una versione minore, più povera e precaria, della istriana casita (kazun in croato).
Una cuciza chersolina nei pressi di Vidovici (isola di Cherso, 2018). Qui
vediamo anche una doppia lessa che separava i due diversi spazi interni
destinati ad usi e animali diversi.
👉In un racconto di Annamaria Zennaro Marsi si coglie bene l'uso che ne veniva fatto in una economia agricola di sussistenza come quella dei piccoli contadini isolani. L'autrice coglie bene anche la differenza fra la cuciza agreste e il kazun contadino circolare istriano, che, stupita, descrive così: "...una specie di trullo circolare, con un buco al centro per far penetrare la luce, un’opera d’arte unica nel suo genere nelle campagne chersine".
La natura della cuciza di Cherso è riassunta in una frase: "...se non fosse stato per quella grande bocca spalancata che ne determinava l’apertura, si sarebbe potuta amalgamare e confondere con le masiere." Ma ecco tutto il racconto, completo anche del titolo:
"La Cuciza, piccola casa in pietra grezza adibita a rifugio degli animali.
Era il mese di giugno del 1944 e faceva parecchio caldo. La paura dei bombardamenti era sempre presente a Cherso e la nostra casa in Prà, particolarmente esposta, avrebbe potuto rappresentare un facile bersaglio. Così mio padre, per proteggerci, decise di sistemare la precaria cuciza di pietre sovrapposte a secco, esistente a ridosso di una masiera (muretto di pietre) nella campagna della nonna, al secondo chilometro della Strada nova, in località Grazis’ce.
👉Per entrarci ci si doveva abbassare e l’interno doveva servire soprattutto per dormire. Tutto il resto si sarebbe fatto all’aperto. La nostra cuciza era di forma quadrata, come la maggior parte di quelle disseminate nelle campagne chersine e, se non fosse stato per quella grande bocca spalancata che ne determinava l’apertura, si sarebbe potuta amalgamare e confondere con le masiere.
Il trasferimento avvenne in una bella giornata di sole. I miei genitori portarono dei fagotti contenenti il necessario per l’improvvisato campeggio: del cibo, acqua, delle lenzuola e coperte per coricarci, qualche pentola, altre indispensabili vettovaglie e ci avviammo, come dei nomadi, su per la strada polverosa. Avevo già fatto molte volte quel percorso, per me interminabile, così, per renderlo più piacevole, mi ero creata delle tappe.
All’imbocco della Strada nova c’era un grosso gelso di more nere e poi a sinistra il nostro orto, delimitato da alcuni gelsi di dolcissime more bianche che rinvenivo sulle foglie della lattuga, altrimenti avrei dovuto prima ripulirle dai sassolini del terreno polveroso della strada. Quanto amavo quell’orticello! Lì i miei coltivavano i piselli, i fagioli, le fave, l’aglio e, sotto il muro tanta salata. A ridosso della casa confinante, nella parte più soleggiata, faticavano a crescere dei carciofi, che solo a guardarli sembravano sprigionare il loro sapore amaro. Proprio su quel terreno i miei sognavano di costruire la loro nuova, tanto desiderata e mai iniziata casa, sradicata sul nascere, come un fiore prima di sbocciare, come la disperata sconfitta di un anelato e poi mancato concepimento che lascia, per il resto della vita, un’inestinguibile nostalgica sofferenza.
Dopo la prima curva, all’inizio di ogni primavera, in un dolce declivio soleggiato, al riparo di un muretto, mi sorprendeva, con il suo intenso profumo e colore, un tappeto di violette mammole. Vecchi ulivi con il tronco ricurvo e rugoso, pecore belanti e deliziosi agnellini sgambettanti tra i sassi delle brulle campagne, contribuivano a distrarmi dalla fatica. Non avevo ancora realizzato l’idea che saremmo rimasti lassù e neanche avrei immaginato le disavventure che avremmo incontrato fin dal primo giorno, anzi della prima notte. Infatti, al pomeriggio, comparvero delle nubi e vidi delle preoccupazioni sul volto di mio padre, provocate dal fatto che il tetto della casetta non era ancora stato reso impermeabile con il cartone catramato e, in caso di pioggia, ci saremmo bagnati. Nonostante i nostri scongiuri, verso il tramonto il cielo si oscurò ulteriormente e fummo costretti a trasferirci, alla svelta, in un rifugio per animali e foraggio che esisteva da anni in una campagna vicina.
Era una specie di trullo circolare, con un buco al centro per far penetrare la luce, un’opera d’arte unica nel suo genere nelle campagne chersine. Entrammo velocemente prima che un impetuoso temporale ci colpisse e, immediatamente, fui invasa da un intenso, pungente e penetrante profumo di magris (elicriso), l’indimenticabile aroma agreste chersino. Faceva già buio e ci coricammo tutti e quattro rannicchiati lungo il perimetro circolare, per evitare gli schizzi della pioggia. Formavamo una catena e i piedi di uno sfioravano la testa dell’altro. Ci sentimmo dei clandestini usurpatori dell’altrui proprietà e il nostro sonno fu agitato dal fragore dei tuoni e dai bagliori dei lampi che serpeggiavano intorno a quel luminoso occhio centrale senza palpebra e soprattutto dalla preoccupazione di doverci allontanare furtivamente all’alba nel timore che il proprietario, a noi sconosciuto, ci scoprisse. Rimase un nostro segreto e, al mattino prestissimo, dopo che la mamma ebbe cercato di smuovere il magris per non lasciare le nostre impronte, ancora assonnati e con forti sensi di colpa, ritornammo nella nostra campagna, ancora intrisa di pioggia." (tratto dal racconto dell'autrice Anna Maria Zennaro Marsi)

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