La memoria, quando pretende di farsi storia, non può permettersi di essere selettiva. E quindi: perché sorvoliamo sulle nostre violenze al confine orientale?
Dal 2004 il 10 febbraio è diventato il giorno del Ricordo: si vogliono commemorare le foibe, le persecuzioni e l’esodo degli italiani d'Istria, Fiume e Dalmazia. Si ricorda solo quel che si vuole ricordare e si finge di dimenticare d'aver seminato vento. L'incendio del Narodni Dom non fu affatto un caso isolato ma segnò l'inzio delle "foibe fasciste". |
L'argomento scatena le irate reazioni dei "talebani dell'esodo" come scherzo-
samente chiamo anche i miei parenti fiumani. Qui mi limito a segnalare un articolo pubblicato dal sito giornalistico "L'Inkiesta" in occasione del "giorno del ricordo" del 2013.
Il taglio giornalistico non deve ingannare, è in realtà la miglior sintesi ch'io abbia trovato su quel periodo. Vero è che s'appoggia sui
contenuti di un libro della casa editrice Kappa Vu di Udine, ma il merito rimane. Le considerazioni svolte per Trieste valgono anche per Fiume e per l'intera regione del litorale adriatico. Per evitare che tra qualche tempo sparisca dal web, lo riporto integralmente qui di seguito:
Il susseguirsi di eventi che hanno caratterizzato l’attuale confine orientale italiano ne è un esempio palese: in quell’area è accaduto di tutto e di più. Per esempio le pulizie etniche sono state varie, e ce n’è una, così imbarazzante per l’Italia che quasi nessuno si è preso la briga di studiarla.
La città di Trieste e tutta la regione del Litorale (questo il nome dato dagli austroungarici a quella che per gli italiani è la Venezia Giulia) dopo la prima guerra mondiale sono state rivoltate come un calzino. Trieste smette di essere una città multietnica perché la propaganda nazionalista la vuole “italianissima” (non lo diventerà mai, motivo per cui il mito di “Trieste italianissima” è sventolato pure ai nostri giorni da una destra affamata di voti, per esempio da un duro e puro come il parlamentare finiano Roberto Menia, curiosamente alleato di Mario Monti).
La città di Trieste e tutta la regione del Litorale (questo il nome dato dagli austroungarici a quella che per gli italiani è la Venezia Giulia) dopo la prima guerra mondiale sono state rivoltate come un calzino. Trieste smette di essere una città multietnica perché la propaganda nazionalista la vuole “italianissima” (non lo diventerà mai, motivo per cui il mito di “Trieste italianissima” è sventolato pure ai nostri giorni da una destra affamata di voti, per esempio da un duro e puro come il parlamentare finiano Roberto Menia, curiosamente alleato di Mario Monti).
Possiamo dare un’occhiata a quanto è accaduto da quelle parti tra il 1914 e il 1919 grazie a un libro di Piero Purini, Metamorfosi etniche, (Kappa Vu). Trieste nel 1913 (anno del suo massimo sviluppo nell’era austroungarica; il porto riprenderà solo nel Sessanta gli stessi livelli di traffico) aveva circa 240 mila abitanti, ovvero più o meno quanti ne ha oggi.
Dal punto di vista etnico la città era molto, ma molto diversa da come si presenta attualmente: agli italiani di cittadinanza austriaca si affiancavano gli immigrati dal regno d’Italia (Trieste era molto più ricca delle vicine regioni italiane e ci si emigrava come si faceva in Svizzera o in Francia), agli sloveni autoctoni si sommavano quelli provenienti dalla Carniola, e poi ancora tedeschi, croati, una forte comunità ebraica (alla vigilia delle leggi razziali Trieste è in termini relativi la città più ebraica d’Italia), piccoli ma vivaci nuclei greci, serbi, armeni, svizzeri, albanesi, boemi, polacchi turchi. Escono giornali in quattro lingue (italiano, sloveno, tedesco e croato) e fino al 1910 vi si stampa pure un settimanale in greco. Per i triestini (e i trentini) la guerra scoppia nel 1914 e i soldati di leva sono costretti a partire per il fronte (gli italiani etnici vengono mandati prevalentemente sui Carpazi). Ma quando è chiaro che ci sarà la guerra con l’Italia, i sudditi di Vittorio Emanuele III fanno fagotto. Fino al 23 maggio 1915, giorno in cui vengono bloccate le linee ferroviarie con l’Italia, se ne vanno circa in 35 mila, ma ne restano ancora parecchi, tanto che le autorità austriache ne rimpatrieranno via Svizzera altri 9 mila (donne, vecchi e bambini) e ne manderanno al confino o all’internamento circa 5 mila (uomini in età di leva). A questo punto gli italiani rimasti a Trieste sono solo quelli che hanno in tasca il passaporto imperiale, di questi 1.047 scapperanno per arruolarsi nel Regio esercito, con 182 caduti (tra loro gli scrittori Scipio Slataper e Carlo Stuparich).
I coscritti triestini nelle forze armate imperiali e regie potrebbero invece aggirarsi sui 25 mila, ma un calcolo preciso non è mai stato fatto a causa del variare della popolazione cittadina. Assieme a quelli che scappano per combattere dall’altra parte del fronte, ci sono anche quelli che se ne vanno per non impugnare le armi: anarchici, socialisti internazionalisti (Trieste, città di cantieri navali e di fabbriche aveva una fortissima componente rossa), pacifisti che, dopo la guerra, gli italiani cercheranno puntigliosamente di non far tornare. Gli eventi bellici portano a un impressionante numero di profughi, Gorizia, per esempio passa da 28 mila ai 3.500 abitanti di quando vi entrano gli italiani, nell’agosto 1916, e sarà del tutto sgomberata dopo Caporetto. Trieste, che non è zona di guerra, perde in tutto circa 90 mila abitanti, arrivando ad averne, nel 1917, 150-160 mila.
Dopo l’armistizio del 4 novembre 1918 nulla sarà mai più come prima. Nel 1919 rientrano in città i cosiddetti “regnicoli” (ovvero gli italiani che prima della guerra erano sudditi del regno e non dell’impero), ma assieme a loro immigrano anche molti italiani attratti dalle nuove opportunità che offre la città conquistata. Si tratta di quasi 40 mila persone, solo 25.500 delle quali erano residenti nell’area prima del 1915. Troveranno occupazione soprattutto nel pubblico impiego, occupando i posti lasciati liberi dal personale mandato via per motivi etnici.
L’accesa attività irredentista di una parte (assolutamente minoritaria) della comunità italiana, aveva fatto sì che gli italiani fossero considerati infidi agli occhi della autorità austriache, con punte di vero e proprio disprezzo da parte dell’imperatrice Elisabetta o dell’erede al trono Francesco Ferdinando. Per questo nella pubblica amministrazione si cercava di assumere personale tra i gruppi etnici maggiormente Kaisertreu (fedeli all’imperatore): poste, finanza, dogana, gendarmeria, porto, ferrovie avevano in prevalenza dipendenti non italiani. Il caso dei ferrovieri è il più eclatante: erano in totale 1926: 1694 slavi (soprattutto sloveni, ma anche croati) e 80 tedeschi e non è detto che i 152 rimanenti fossero tutti italiani. Dopo la guerra, tra licenziati e trasferiti non si è più nemmeno in grado di far funzionare i treni e bisogna richiamare in fretta e furia personale dal resto d’Italia. «L’espulsione dei ferrovieri può essere considerata il primo momento di “bonifica etnica” ai danni della popolazione slava della Venezia Giulia, poi sistematizzata durante il fascismo», scrive Purini.
Il primo gruppo etnico a essere espulso da Trieste sono i tedeschi, circa 12 mila, terzi per consistenza in città, dopo italiani e sloveni. Si scatena una vera e propria caccia alle streghe contro i “non patrioti”, arrivando alla delazione nei confronti di chi parla tedesco in privato, mentre una rumorosa campagna di stampa chiede di sostituire nelle scuola l’inglese al tedesco come lingua d’insegnamento. C’è da dire che il comandante militare, il generale Carlo Petitti di Roreto, si oppone fieramente alle discriminazioni; che avranno invece via libera da quando Trieste smetterà di essere zona di occupazione militare e sarà ufficialmente annessa all’Italia, nel 1920. Vengono presi provvedimenti tesi a favorire la partenza dei tedeschi, vengono chiusi il quotidiano “Triester Zeitung” nonché chiese, scuole e istituzioni culturali. Nel consiglio di amministrazione della Camera di commercio i membri tedeschi, greci, e anche qualche italiano del posto, sono sostituiti con personale arrivato dall’Italia.
Secondo voci non verificabili, da Trieste nel 1919 partono 40 mila persone (tante quante ne arrivano), ma è impossibile capire dove si siano dirette, quanti fossero i tedeschi e quanti gli sloveni, i croati o i serbi. Un dato certo piccolo, ma significativo: su una classe di 40 ragazze del liceo femminile tedesco, ne resta a Trieste una sola. Negli anni Venti la comunità tedesca è ridotta a stento a mille unità.
Se ripulire la città dai tedeschi era relativamente semplice, ben diverse stanno le cose con la più numerosa comunità slava. La chiusura del liceo tedesco provoca anche un esodo di studenti sloveni e croati: almeno un terzo degli studenti erano di lingua slava perché a Trieste non esisteva un liceo sloveno, ma solo scuole tecniche.
Se ripulire la città dai tedeschi era relativamente semplice, ben diverse stanno le cose con la più numerosa comunità slava. La chiusura del liceo tedesco provoca anche un esodo di studenti sloveni e croati: almeno un terzo degli studenti erano di lingua slava perché a Trieste non esisteva un liceo sloveno, ma solo scuole tecniche.
Si colpiscono con l’internamento le personalità più in vista: sacerdoti (colonna di tutti i nazionalismi), insegnanti, professionisti; in tutto sono 500 persone, non moltissime, ma costituiscono un esempio e determinano un decisivo incentivo alla partenza per gli appartenenti al medesimo gruppo etnico.
Nel marzo del 1919 gli emigrati dalla Venezia Giulia – quindi non soltanto da Trieste – alla Jugoslavia assommano a 30-40 mila. Nella sola Lubiana un campo ospita 5 mila profughi provenienti dal Litorale.
Nel marzo del 1919 gli emigrati dalla Venezia Giulia – quindi non soltanto da Trieste – alla Jugoslavia assommano a 30-40 mila. Nella sola Lubiana un campo ospita 5 mila profughi provenienti dal Litorale.
Di pari passo con le espulsioni, procede l’italianizzazione del territorio: Roma manda nella Venezia Giulia 47 mila tra militari, poliziotti e agenti di custodia, 9 mila circa solo a Trieste. Tanto per fare un raffronto, Vienna teneva nella medesima area 25 mila persone in divisa, ma 17 mila erano in servizio a Pola, la principale base della Marina da guerra austroungarica. I 40 mila neo arrivati dall’Italia di cui si è parlato sopra, si sommano ai 47 mila militari. L’immigrazione economica si ferma negli anni Venti a causa della devastante crisi che colpisce Trieste: la città si ritrova a essere declassata da unico porto della parte austriaca dell’impero (l’Ungheria aveva come riferimento Fiume) a porto del tutto marginale del regno d’Italia.
Il fascismo, ovviamente, porterà al parossismo l’opera di italianizzazione: intere parti di Trieste saranno demolite e ricostruite in stile littorio, si procede alla snazionalizzazione dei toponimi (Opicina diventa Poggioreale del Carso, tanto per dirne una) e dei cognomi. Si calcola che tra il 1919 e il 1945 siano stati italianizzati circa mezzo milione di cognomi della Venezia Giulia, 100 mila dei quali a Trieste. Italianizzazione che avviene, ovviamente, all’italiana: se eri ricco e potente, nessuno ti toccava. Gli armatori Cosulich si tengono il loro bel cognome lussignano (anche se italianizzato nella grafia, altrimenti sarebbe Kozulić).
Le partenze di sloveni e croati etnici vengono incentivate dalle sistematiche violenze squadriste, culminate nell’incendio dell’hotel Balkan, sede delle istituzioni culturali slovene triestine, il 13 luglio 1920. Il censimento del 1921 fotografa nella Venezia Giulia una situazione radicalmente diversa rispetto a quella del 1911: gli slavi passano da 466.730 a 349.206, gli italiani da 354.908 a 467.308.
Con l’ascesa del fascismo la violenza si intensifica e si parla apertamente di «bonifica etnica», termine che rispecchia nella forma e nella sostanza la «pulizia etnica» di anni più recenti. E proprio quando si parla della pulizia etnica attuata da altri, non sarebbe male guardare anche a quel che è successo in casa propria
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