Fulvio Tomizza ripreso nel paese di nascita, presso Umag-Umago. |
Dette da lui, un istriano che non ha mai voluto cadere nella trappola della contrapposizione fra "italianità" e "slavismo", sono parole che meritano attenzione. Secondo Tomizza
● coloro che aveva scelto di andarsene finirono «Sparsi per l’Italia, in altri Paesi europei e nei continenti più lontani, morsi da nostalgia e da propositi vendicativi, acca-rezzati dalle destre e invisi alle sinistre per il loro acceso anticomunismo, là dove avevano avuto la possibilità
di concentrarsi in un gruppo di poderi o in alcuni caseggiati, questi scampati allo slavismo rosso anche per orgoglio nazionale vengono candidamente chiamati slavi.»;
● invece i rimasti «[...] avrebbero a lungo andare vissuto sulla loro pelle il declassamento da maggioritari a minoritari subordinati giorno e notte, sul posto di lavoro e nel rispettivo quartiere, a una maggioranza improvvisata e prevenuta al massimo verso i «taliani», il loro nemico storico, come lo sono tutt’ora gli slavi per coloro che se ne erano andati con una valigia.»;
● quanto ai figli dei rimasti «Sarebbe toccato a essi la sonante beffa di vivere esuli in patria e di continuare a subire il disprezzo dei conterranei emigrati».
Sono riflessioni che Tomizza affidò alla penna nel 1998, poco prima di morire, sotto il titolo "La mia Istria".
Il testo di Fulvio Tomizza "La mia Istria" (del 1998):
«Chi ha studiato la recente storia istriana, o ricorda, sa bene che il valico internazionale per passare in Istria non si situava come oggi a Rabuiese, quasi nel perimetro industriale di Trieste, ma indietreggiava di un paio di chilometri fino al paese di Skofije, diviso a metà dalle sbarre confinarie. Là, tra le case, più che confrontarsi si guatavano due mondi e due modi di vivere contrapposti, quello dell’Est democratico. Non occorreva aver superato il rigido controllo delle guardie jugoslave per rendersi conto se ci si trovava in uno o nell’altro emisfero; lo manifestavano le facciate e i tetti degli edifici, i piccoli negozi, lo stesso manto stradale, l’umore e il vestire della gente ivi residente. Poi, nel 1954, in seguito al Memorandum di Londra che decretava la fine del mai realizzato Territorio libero di Trieste (Tlt) e assegnava le sue due zone rispettivamente all’Italia e alla Jugoslavia, il confine veniva portato avanti nella piana di Rabuiese e lo Stato italiano ci rimetteva due altri villaggi già compresi nella più lucente ed euforica Zona A amministrata dagli angloamericani. L’Italia perdeva proprio tutto, l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia si completava anche nei suoi estremi margini settentrionali, nonostante lo sproporzionato rapporto di forze tra i due contendenti, nonostante la solenne promessa di Francia, Inghilterra e Stati Uniti, chiamata nota tripartita, di riconsegnare al governo di Roma l’intera Zona B, da mezza Skofije alla sponda del fiume Quieto, una quarantina di chilometri verso Pola. Perché? Come era potuta accadere una soluzione altrettanto rovinosa e beffarda?
La prima risposta è che la Jugoslavia sedeva nel 1947 a Parigi tra i Paesi vincitori della Seconda guerra mondiale, i quali le assegnavano i quattro quinti della penisola istriana (oltre a Fiume e Zara) abitata anche da sloveni e croati assai provati dal ventennio fascista e in notevole parte confluiti tra i guerriglieri di Tito. La seconda risposta è che l’Italia, sconfitta e persecutrice degli slavi durante la dittatura fascista, non intendeva perdere Trieste, per la cui conquista aveva sacrificato 600 mila uomini nel corso della Prima guerra mondiale e, oltre a bocciare regolarmente ogni proposta, anche la Zona B, così come Tito non rinunciava alla A e soprattutto al suo capoluogo, la «slovena Trst». Alleata delle potenze occidentali, quando la tensione tra le due zone era salita a livelli preoccupanti, si era fatta assicurare da queste la restituzione della Zona B, ma di fatto, con la cacciata dal Cominform, Tito, sconfessato a Est, aveva rafforzato la propria posizione proprio a ovest e quindi non lo si poteva scontentare del tutto. La promessa tripartita era stata poi fatta a De Gasperi, uomo che di confini se ne intendeva, al quale successe Pella che sposò la causa degli irredentisti giuliani usando la mano forte, e poi Scelba il quale si accontentò di assicurarsi Trieste tramutandone la riconsegna in un successo personale su Tito. Va aggiunta una terza risposta in parte deducibile da quanto ho esposto sopra e che cioè gli jugoslavi, anche attraverso i loro fratelli istriani sloveni e croati, conoscevano bene, angolo per angolo, direi zolla per zolla, ciò che intendevano ottenere fin dai tempi della lotta clandestina antifascista e dei vertici moscoviti dei segretari dei partiti comunisti, comprendenti Togliatti. Mentre l’Italia, l’Italia anche di Palmiro Togliatti, al suo possibilismo e alla sua faciloneria, alla disinvolta ignoranza e al sostanziale disinteresse per le proprie zone di frontiera, suppliva con una retorica magniloquente quanto fastidiosa e offensiva.
In virtù della loro determinazione, e della loro passione autentica benché talvolta sovreccitata, gli sloveni hanno infine ottenuto ciò a cui aspiravano secolarmente: l’autonomia e l’affacciarsi all’Adriatico. Tengono tutti i transiti del confine ex jugoslavo con l’Italia, compresa Skofije divenuta un articolato centro commerciale che, nella generale corsa per le compere a Trieste, tenta di attirare gli acquirenti triestini, i negozi di free-shop allestiti in casette e in scantinati perfino ai valichi minori a cui si accede con apposito lasciapassare rilasciato ai residenti nelle due aree. È la Capodistria dei Vergerio, del Santorio, del Carli, dell’infanzia del Carpaccio, soggiace alle sagome dei grattacieli, dei capannoni e delle altre attrezzature del maggior porto sloveno, quasi priva di italiani, i quali però hanno pressoché tutti un impiego o un posto di prestigio presso la stazione radio televisiva, i musei, la biblioteca civica, il ginnasio-liceo, e ripetutamente hanno rivestito la carica di sindaco o di parlamentare a Lubiana. Una città satellite si ammassa come una fungaia sul colle San Marco, oltre la strada litoranea, dove un tempo si notavano soltanto una chiesetta votiva contro la peste e il palazzetto di P.A. Quarantotti Gambini.
Come è accaduto per le successive Isola e Pirano, questi centri più vicini a Trieste si erano svuotati nel corso dell’esodo dalla Zona B e sono stati ripopolati sia da gente dell’entroterra sloveno che ha migliorato la propria posizione sociale, sia da funzionari e imprenditori lubianesi con casa al mare. Né gli uni né gli altri riescono tuttora a intonarsi con le piazze e le calli venete, a tutto vantaggio dei pochi rimasti, anche di estrazione popolare, che si danno ritrovo nelle sedi delle comunità italiane, a Pirano nella casa natale di Giuseppe Tartini. Ora che i confini sono diventati sicuri, il governo di Lubiana non trascura di tutelare e perfino accentuare quanto di notevole e di glorioso ha ricevuto in consegna dolorosa e perpetua. Restauri, concerti tartiniani a Pirano con Uto Ughi e i Solisti Veneti nella chiesa di San Giorgio, alla presenza del capo dello Stato Kucan, uomo mite e tempista a cui la Slovenia deve lo strappo quasi incruento da Belgrado, il quale all’ombra del grande musicista italiano riceve il nostro presidente Scalfaro. La minoranza italiana funge da mediatrice e ne va fiera perché in tal modo preme sul riconoscimento dei propri diritti e dimostra agli esuli istriani che l’italianità del territorio perduto sopravvive grazie a essa.
Vale la pena soffermarsi sull’ostile rapporto, da ultimo un po’ migliorato, tra istriani di lingua italiana rimasti e istriani in esilio. Questi ultimi accusano i primi di non aver preso parte alla muta dimostrazione dei due esodi perché schieratisi con l’occupatore. Il rinfaccio è in parte legittimo. Gli istriani saliti a incarichi rappresentativi nell’Istria spopolata e gradualmente ripopolata da genti di tutte le repubbliche federali erano di ideologia comunista, provenivano dagli ambienti operai di cittadine quali Isola, Rovigno, Pola, Albona e Fiume, dotate di piccole e medie industrie; avevano pagato sotto il fascismo la loro militanza politica e preso parte alla Resistenza jugoslava (nella zona non c’era altra che contasse); finita la guerra partigiana, al ritorno dell’Italia preferirono un avvenire socialista sotto altra bandiera. Altri erano rimasti in patria semplicemente perché non sentivano legame più forte di quello esercitato su di loro dalla casa, i campi, gli scogli, la barca; o appartenevano a famiglie miste e non si opponevano a matrimoni promiscui come pacificamente avveniva ai tempi dell’Austria e come la situazione forzava adesso che gli slavi erano in maggioranza. Tutti, non esclusi gli scoperti opportunisti ai quali nelle terre di frontiera non è richiesto coprirsi, avrebbero a lungo andare vissuto sulla loro pelle il declassamento da maggioritari a minoritari subordinati giorno e notte, sul posto di lavoro e nel rispettivo quartiere, a una maggioranza improvvisata e prevenuta al massimo verso i «taliani», il loro nemico storico, come lo sono tutt’ora gli slavi per coloro che se ne erano andati con una valigia.
Ai padri compromessi, taluni dei quali, dopo la scomunica di Tito votata anche dal Pci, erano finiti nel lager bestiale del Goli Otok in Dalmazia, successero i figli, discriminati già durante i giuochi e sui banchi di scuola. Sarebbe toccato a essi la sonante beffa di vivere esuli in patria e di continuare a subire il disprezzo dei conterranei emigrati. Nemmeno a questi ultimi venne risparmiata una terza o ennesima beffa riservata all’Istria e alla sua gente. Sparsi per l’Italia, in altri Paesi europei e nei continenti più lontani, morsi da nostalgia e da propositi vendicativi, accarezzati dalle destre e invisi alle sinistre per il loro acceso anticomunismo, là dove avevano avuto la possibilità di concentrarsi in un gruppo di poderi o in alcuni caseggiati, questi scampati allo slavismo rosso anche per orgoglio nazionale vengono candidamente chiamati slavi. Era perciò inevitabile che s’innescasse un processo destinato a portare i due settori incompatibili di istriani italiani a un graduale avvicinamento non fisico bensì ideologico e sentimentale, in qualche caso a uno scambio mentale delle rispettive posizioni come lascia intendere Nelida Milani, la più dotata intellettuale italiana vivente a Pola, nel suo romanzo La valigia di cartone. [...]»
Fulvio Tomizza (Umago, 26 gennaio 1935 – Trieste, 21 maggio 1999)
Nessun commento:
Posta un commento