5 febbraio 2012

La buona società asburgica fin de siècle guardava alle sue città del litorale adriatico come si guarda agli scavezzacollo

Il sudtirolese Claus Gatterer scrive che durante l'industrializzazione e la belle époque "Città come Trieste, Fiume o Zara non godevano sotto la monarchia danubiana di buona reputazione" poichè troppo moderne, cosmopolite e forse anche agnostiche, se non proprio atee e cosmopolite.
 I cattolici conservatori delle zone italiane dell'Impero asburgico (Trentino da ultimo, ma prima anche i centri del Lombardo-Veneto) le vedevano preda della modernità agnostica o massonica, in sintonia con l'atteggiamento pontificio verso il neonato Regno d'Italia, specialmente dopo la bestemmia della "presa di Porta Pia" del 1870. Un dato per tutti: l'importante porto industriale di Rijeka aveva solo due parrocchie cattoliche: una per il centro-città ed una per il sobborgo di Drenova e solo nel 1920 (durante l'impresa dannunziana) dal vecchio Duomo di Santa Maria Assunta vennero create cinque unità minori, cosicchè in seguito la città ebbe sei parrocchie.
A queste città veniva imputata la tolleranza verso le altre confessioni religiose: riservare ad uniati e ortodossi, protestanti ed ebrei una considerazione pari a quella riservata alla chiesa cattolica romana pareva fuori luogo.
Le successive derive filofasciste e filonaziste della chiesa cattolica locale (di matrice contadina e quindi molto tradizionalista) non sono comprensibili senza questa premessa. La guerra delle anime venne combattuta dagli integralisti cattolici delle campagne con convinta durezza da Trieste al Carso, alla Carniola, all'Istria e poi nelle isole e lungo il litorale. Per gli slavi cattolici dell'entroterra l'Italia era il paese che teneva prigioniero il Papa in Vaticano.
Lo spirito del tempo, cosmopolita, laico ed edonista
in un manifesto pubblicitario della belle-époque.
 Le tematiche nazionaliste si sovrapposero poi a quelle religiose. I preti cattolici della zona cominciarono a "militare" cioè a schierarsi a favore del proprio gruppo nazionale. Le città (consideriamole agnostiche) non si accorgevano di quanto montava nell'entroterra contadino. I parroci delle campagne erano spesso militanti della reazione, come Andreas Hofer tempo prima nel Sudtirolo, e ai loro occhi modernità e snazionalizzazione erano sinonimi. Al sentimento religioso e contadino si sovrappo- nevano infatti quelli etnici, linguistici, di classe e nazionalità: una bella miscela che trovò nel basso clero cattolico sloveno un entusiasta sostenitore.
 Alla fine, dopo la buriana militare della WW1, il quadro generale vedeva ancor più le città contrapposte all'entroterra. La borghesia cittadina era italiana, amministra- tiva, industriale, commerciale, cosmopolita, modernista; tutt'altro pianeta rispetto alla campagna dei piccoli paesi dell'entroterra in mano ai preti cattolici e tradizionalisti, slavi, arretrati, chiusi e conservatori. Nè il prole- tariato industriale delle città costiere, che pure esisteva, era sufficientemente sviluppato per poter interloquire nelle questioni di fondo. Nel frattempo l'immigrazione dei contadini slavi aveva portato Trieste ad essere di fatto "la più grande città della Slovenia, in quanto il numero dei sui abitanti che parlavano sloveno superava già il numero complessivo degli abitanti di Lubiana" (Gatterer, ivi, pag. 139).
 A soffiare sul fuoco del nazionalismo e a mettere gli uni contro gli altri ci pensò poi il fascismo, che quì prima di altrove si manife- stò fra gli abitanti delle città, mise radici e distillò i suoi veleni e le sue false coscienze.

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