Per dare l'idea di come molti italiani d'Istria fossero dei fascisti senza saperlo. Ecco per esempio Torquato, rastrellatore a sua insaputa.
Tra le molti stragi dei rastrellatori nazi-fascisti la peg- giore fu la strage di Lipa (un piccolo paese contadino fra Fiume e Trieste). |
Dintorni di Fiume, ottobre 1944. Sono passati 12 mesi dai primi grandi rastrellamenti e rappresaglie nazi-fasciste.
👉Di sentimenti fascisti, Aldo Quattrocchi è una testa calda, un tenente ventenne strafottente e incline alla insubordinazione che presta servizio agli ordini di Giuseppe Porcù, il sardo che comanda la 61a Legione dei Carabinieri. "Carnaro" dove Aldo Quattrocchi presta appunto servizio.
👉Ormai anziano, negli anni '90, Quattrocchi scrive mischiando i propri ricordi con i luoghi comuni della pubblicistica fascista che si erano andati accumulando negli anni:
👉Ormai anziano, negli anni '90, Quattrocchi scrive mischiando i propri ricordi con i luoghi comuni della pubblicistica fascista che si erano andati accumulando negli anni:
Ma ecco l'interessante testimonianza di un fascista rastrellatore (Torquato Dalcich, anagramma di Aldo Quattrocchi).
SEJANE - 7 ottobre 1944 – Ho raggiunto in mattinata questo squallido paesetto della Ciceria, il che non vuol dire che ne abbia i requisiti perché “NON” esiste più da oltre cinque mesi ed il luogo
non offre che desolanti macerie, risultato di un “raid” uso Wermacht . Allora cos’è Sejane? Alcune baracche in legno e bandone ondulato che “ospitano” un centinaio di esseri umani, uomini e donne, rastrellati, adibiti a pesantissimi lavori di fortificazioni, come scavare trincee, bocche da lupo, camminamenti, ecc…. sprovvisti di indumenti adatti alla stagione e nutriti con pappine schifose di segala, carote e rape marce. Razioni ridicole di mera sopravvivenza ed io ed i miei soldati ci vergogniamo come ladri allorché, sotto i loro sguardi, consumiamo il nostro rancio.
non offre che desolanti macerie, risultato di un “raid” uso Wermacht . Allora cos’è Sejane? Alcune baracche in legno e bandone ondulato che “ospitano” un centinaio di esseri umani, uomini e donne, rastrellati, adibiti a pesantissimi lavori di fortificazioni, come scavare trincee, bocche da lupo, camminamenti, ecc…. sprovvisti di indumenti adatti alla stagione e nutriti con pappine schifose di segala, carote e rape marce. Razioni ridicole di mera sopravvivenza ed io ed i miei soldati ci vergogniamo come ladri allorché, sotto i loro sguardi, consumiamo il nostro rancio.
Con un sottufficiale tedesco occupiamo due casotti in pietra e assi d’abete. In uno, ammucchiati su castelli a tre piani, i militi con un sergente mio aiutante; nell’altro, con Fritz (chiamerò così il nazista, per comodità) a parte della armi e delle derrate, ci sono io.
Una brandina e tre coperte. La cosa che mi rode è il non potere parlare con “i lavoratori”; solo Fritz impartisce ordini e a noi non resta che fare la guardia in quota contro improbabili attacchi partigiani.
Dico improbabili perché nessun titino attaccherebbe i propri confratelli. Mi si rivolta lo stomaco e non credo che ci resterò molto in questo maledetto luogo, anticamera dell’inferno.
L’intera zona, dopo che tre paesi sono stati devastati e la popolazione internata, è disseminata di mine, così i campi sono zeppi di patate non raccolte ed a me frulla in testa un’idea.
Col telefono da campo mi metto in collegamento con il mio Comandante di Compagnia, tenente Aurelio Piesz (Relly, per i suoi), per esporgli la mia intenzione. Questo Relly è un fegataccio, un veterano dei Balcani, fiumano, ottimo “Dolmetscher” (interprete tedesco), un ragazzo col dente avvelenato per i “druze” gli hanno assassinato il padre a Gorizia, il 12 settembre del ’43.
FIUME – 12 ottobre 1944 – Un ordigno esplosivo deflagra al Comando di Polizia tedesca. Lievi danni e solo sospetti sull’attentatore, che potrebbe essere uno dei tanti mercenari sovietici incorporati nell’esercito nazista.
Stamani ne ho combinata una delle mie: procediamo con ordine. Con un carro tirato da un ronzino ho accompagnato alla stazione ferroviaria di Mattuglie due militi febbricitanti. Tifo o no devono andare in ospedale, a Fiume, ma non ci sono treni se non una locomotiva a vapore con “tender” sul binario per la città.
Prego il capostazione di consentire ai miei uomini di montare sul “tender”, visto che nella cabina ci sono, oltre al macchinista, due manovali. Non daranno nessun fastidio, si tratta di una emergenza. Ma Sergio (???), dal rosso cappello, mi risponde secco che è contrario ai regolamenti. Insisto in nome della comune nazionalità (si tratta di un veronese), ma, ahimè, non potevo commettere errore più madornale: il nostro ferroviere è sì italiano ma slavo di sentimenti e idee politiche. Lo seppi in seguito dal sostituto Signor Fontana, pugliese e galantuomo.
Allora – la vaporiera era sul punto di partire per Fiume – invito i malati a montare in cabina e Sergio, viso congestionato, intima al macchinista di scendere. A nulla valgono le proteste, ma il capostazione “cattivo” non sapeva che Dalcich, maestro il ferroviere Vinello, sapeva guidare una locomotiva a carbone.
Così, fremente di rabbia, monto in cabina e parto dopo aver addirittura tirato la fune del fischio.
A Fiume sono stato aspramente rampognato, ma visto che in qualche modo ero stato offeso nella mia dignità d’ufficiale, il collega del Comando Militare di Stazione (Sottotenente GNR R. Novarino, fucilato a San Matteo – Castua – nel maggio 1945) non ha steso rapporto.
FIUME – 15 ottobre 1944 – Arresti e severe misure repressive, deportazione compresa, per chiunque si sottragga “al servizio di guerra” imposto dall’Alto Commissario Rainer.
C’è un preciso motivo mormorato nei corridoi della Caserma di Scojeto: è ipotizzato uno sbarco degli anglo-americani nell’alto Adriatico e per fermarli necessita un mini-vallo a ridosso della città, e così a Sejane giungono altri rastrellati e parecchi – le donne specialmente – indossano vestiti di cotone col freddo boja che fa da queste parti ! E non serve torcersi le mani.
Col mio vice, sergente maggiore W.H. (d’accordo con Relly) daremo inizio all’operazione “krompira” (patate).
Ciascun milite, mappa delle mine in mano, riempirà - durante il servizio di vigilanza – lo zaino dei preziosi tuberi e la sera, all’ora della distribuzione del misero rancio ai deportati, le distribuirò.
Abbiamo tantissima legna e un mezzo fusto di nafta ripulito a dovere, fattomi avere da Piesz. L’idea mi affascina…..
Il sole sta calando dietro il Monte Lome e sullo spiazzo, davanti le baracche, si forma una lunga coda: armati di barattoli e gamelle i “lavoratori” ricevono un’abbondante razione di patate lesse, buonissime.
Ma Fritz non è affatto d’accordo.
Chissà cosa diavolo gli è passato per la sua mente contorta visto che, avvicinatosi al pentolone, urla: “Basta così…. Rientrate negli alloggiamenti …. Avete già avuto il vostro rancio “.
Ed io, stupefatto: “Lo chiami rancio ? Neppure un neonato sopravvivrebbe con quelle vostre schifezze; lascia stare che si riempiano lo stomaco con le patate che presto, se non saranno raccolte, marciranno !”.
“Nein, nein, nein….“. Ed io, rosso come un peperone: „Ja, ja, ja....”. I “lavoratori” non sanno cosa fare e questo fino a quando Fritz non molla una pedata al pentolone rovesciandolo. E loro, i “lavoratori” (tra i quali c’era anche un ex capitano degli alpini) mi sogguardano come a voler dire: “Codardo ! …Basta un cafone tedesco a fartela fare nelle brache; ti sei ammosciato come un palloncino sgonfiato….”.
Ma non andò così. A pensarci, credo che sia stata in parte la mia natura fiammiferina, il ricordo dei tanti nostri soldati abbandonati tra la neve in Russia, le umiliazioni di una resa senza colpo ferire fatta di centinaia di migliaia di uomini finiti nei “lager”. Insomma, io tapinello, semplice filetto dorato sulla manica, mollai a mia volta un calcione suscitando una risata colossale, irrefrenabile, cui seguì un silenzio carico di pericolosa attesa.
Gesto spettacolare, considerati i tempi, e il nazista, roteando gli occhi e bestemmiando “Ach mein Gott, sacramento ….”, si precipitò nella baracca a telefonò a Castelnuovo, sede del comando zonale delle SS.
Quando, sbollita la rabbia, mi resi conto della gravità del fatto, immediatamente – e cioè prima che la situazione degenerasse – mi apprestati “dignitosamente” a tener testa a chiunque m’avesse chiesto ragione del mio atto. Infatti, circa un’ora dopo, giunse nientemeno che il Capitano Kampf. Gridava in modo isterico, ma per mia fortuna ignoravo la lingua germanica e i suoi ululati mi lasciavano freddo specie dopo che l’interprete, un altoatesino, compitava lentamente i reprimenda dell’hauptmann. Ma, quando schiumando per il mio serafico atteggiamento, mi ordinò di prendere la mia roba e seguirlo, allora no, allora risposi (raccogliendo tutto il mio coraggio) che non l’avrei seguito, perché: “Sono un ufficiale italiano, qui siamo in Italia e prendo ordini esclusivamente dal mio Comandante…”.
Occhiate da incenerire e la promessa che sarebbe presto ritornato; il che voleva dire accompagnato da un nerbo di scherani. Eppoi, i miei uomini non avrebbero permesso che mi portasse via.
Qualcuno aveva già preso posizione piazzando il mortaio da 81mm, puntandolo sulla strada per Mune Vele, località dalla quale sarebbero arrivati i tedeschi di stanza a Castelnuovo.
Allora non mi restò altro da fare che cedere il comando al mio vice e lasciare il caposaldo. La notte già incombeva e Suonecchia, il posto di guardia più vicino, distava almeno tre chilometri. Tre chilometri al buio, armato solo della Beretta, nell’uniforme della Milizia. Non c’era di che stare allegri !
E peggio andò quando raggiunsi Suonecchia. Il Tenente Stroligo, spaventatissimo, mi consigliò di continuare per Giordani, perché: “… e tu credi che farebbe differenza per i crucchi prelevarti qui, anziché a Sejane? Metti nella peste me…” Era verissimo. E così io (“col cavallo di San Francesco”) m’incamminai velocemente, con la morte nel cuore.
Come Dio volle raggiunsi la piccola stazione ferroviaria e trovai persino una tradotta per Fiume. Alle due del mattino mi buttai come un sacco sul mio letto, in Via Milano, ma cosa sarebbe successe “dopo ?”.
FIUME – 16 ottobre 1944 – Strapazzato senza misericordia dal Maggiore Gigi Capellini che scuote la testa sconsolatamente: “….ma sei pazzo “ Prendere a calci un militare tedesco….”. Se Gigi – non direttamente interessato – è fuori di sé, che mi dirà allora il Colonnello Porcù ? Accidenti al mio caratteraccio ! Perché non ho obbedito al vecchio adagio che consiglia di contare sino a dieci prima di scattare ?
Il Maggiore delle SS Von Goohl, ufficiale di collegamento con il 3° MDT, esige subito scuse e punizione, accusandomi, addirittura, di sabotare lo sforzo bellico.
Il Comandante, invece, se ne sta zitto a esaminarmi, le mani sul tavolo, la testa ben eretta e non segue per niente il gesticolare di Von Goohl. Sabotaggio ?
Si, perché non si ridicolizzava un soldato tedesco di fronte ai civili, specie ora che, prove alla mano, si sa che gli Alleati si preparano a sbarcare in Istria e investire Vienna dal sud. Lo dicono tutti; Patton – Generale americano – ha messo a disposizione per la suaccennata operazione, uomini e navi ad Ancona.
“Hai malmenato un tedesco? Si? Bene, da domani raggiungerai la sottostazione elettrica di Mattuglie e ne assumerai il comando …”. Porcù dixit…
Dei conoscenti ed amici, dei Di Carlo, Tiribilli, Dotti, non c’è rimasto nessuno. Il “Nido” dell’O.N.M.I., la clinica dov’è nata la mia nipotina Rory, è ora il comando della 2a Compagnia Arditi del 3° MDT. Un’aria cupa e deprimente, benché la stagione sia splendida; poche facce conosciute che non ti degnano nemmeno di un saluto “grazie” alla divisa che indosso.
Un frettoloso “ciao” da parte di Mara Serdoc, di Lella (è la prima, l’amica di Arbe), oppresse dalle giornaliere preoccupazioni e dalla paura provocata da tanti strambi eserciti. Il nostro, paludato ormai solo di nero, quello nazista, persino un reparto di “nediciani” (prendono il nome del generale serbo collaborazionista Nedic) e, di notte, carducciani “Lurchi fuor dalle tane”, i titini assetati di sangue, comunque.
Pensare che quando giunsi in questa landa – un ottobre di tre anni orsono – ero felice, prorompevo di gioia convinto d’aver trovato il vero paradiso dopo gli orribili sconvolgimenti subiti a Padova, sotto le bombe inglesi.
Ma ero un povero sognatore ed ora sono un consapevole robot cui si chiede di uccidere. Mattuglie!… Il mare ai miei piedi è immutabile nei suoi colori verdognoli, la vegetazione superba ed incantevoli sono le coste della riviera e le isole del Golfo. Dietro Veglia, raggiunta con gli occhi della fantasia, la mia Arbe. Un groppo alla gola impossibile da ricacciare perché, come nasconderlo, io amo quella terra, tanto più se non è la mia.
MATTUGLIE – 22 ottobre 1944 – Prima “sortita” armata per me, su allarme. Mio fratello Niny mi ha già ragguagliato sulla procedura: un motociclista reca l’ordine del Comando di Compagnia e nel caposaldo si procede alla “cernita” degli uomini che parteciperanno al rastrellamento.
A mezzanotte circa ci si raduna nel cortile della sottostazione attendendo i camions che dovranno scaricarci nella zona “infetta”. Armi leggere e tute mimetiche, ai piedi soprascarpe di feltro – ricavate dalle “lanterne” dei Carabinieri – per attutire il rumore della marcia sulle pietraie.
A fari spenti si procede sulla Statale 14 e ci si accoda ad un reparto tedesco di SS proveniente da Castelnuovo (o da Trieste).
Qualche volta – perché di queste puntate ce ne furono parecchie – partecipano anche una ventina di GG.FF. (Guardia di Finanza), nonché due grossi cani pastori alsaziani che hanno il compito di uccidere i loro simili per evitare che abbaino mettendo in allarme i “druzi” (compagni) dormienti nei casolari.
Si procede faticosamente in fila indiana, ben distanziati per non farsi cogliere dal tiro falciante del nemico che potrebbe aspettarci, evitando le strade, i crinali, scartando le valli aperte. Ci si muove esclusivamente di notte e il giorno ci si defila aspettando il calar del sole per proseguire, freddo o pioggia che sia.
Questo mostruoso modo di agire ci è stato imposto dalla tattica avversaria, dalla guerriglia che non si espone mai quando teme d’aver la peggio. Serve a qualcosa ? Ho avuto modo di dubitarne.
Quando si raggiungono gli obiettivi, il nemico non c’è più. Tutto denunzia la sua presenza, ma gli uomini capaci di portare le armi, non ci sono; solo donne, vecchi e bambini ed una risposta, monotona e scontata: “Dov’è tuo marito? Dov’è tuo fratello? Tuo padre?….” – “Prigioniero in Sardegna!”. Non è vero, ma come la boccaccesca novella, se non ci credete, assodatelo!
FIUME – 24 ottobre 1944 – Bellissima domenica ottobrina e, PER ME GIORNATA DEL TUTTO PARTICOLARE. Oggi, mi recherò, con la pimpante e simpatica conoscenza d’Arbe, la Katia Nicolich, nella più esclusiva e famosa pasticceria della città: Panciera, in Viale Camicie Nere, che (in tutta segretezza) ti fa gustare delle squisitissime paste alla crema e la Katia, perennemente affamata, ne ingolla mezza dozzina. E come potrebbe essere diversamente col suo misero stipendio di maestra, costretta a vivere in tuguri fatiscenti? Ma la nostra lusignana (di Lussino) è tutta straordinaria ed io, oltre ad ammirarla sconfinatamene, nutro per lei il medesimo affetto che ho per le mie sorelle, benché sia una donna desiderabilissima, colta e d’una intelligenza non comune.
MATTUGLIE – 26 ottobre 1944 – Grazie a “Pino”, il Comandante, ho arraffato una licenza di cinque giorni più il viaggio e parto per Milano, per riabbracciare le donne Dalcich. Partirò con il “vecchio”, che, scovato un sacchetto di sale, prezioso ed introvabile sul mercato ambrosiano, non vede il momento di recapitarlo in Via Ramazzini.
Il Colonnello Porcù ci consegna una lettera per il suo collega Colonnello Balzella, suo superiore in Albania, che ora comanda la G.N.R. a Brescia. Un compitissimo gentiluomo (che tuttavia non trovò rispondenza nei gaglioffi cho lo imprigionarono dopo il 25 aprile. Pur essendo innocente di tutto, fu bastonato sino al punto di perdere la vista e poscia fucilato sugli spalti del Castello).
FIUME – 30 ottobre 1944 – La Medaglia d’Oro Carlo Borsani, cieco di guerra, tiene una conferenza in città, al Teatro “La fenice”. Devo ricordarlo perché ho appena finito di leggere il suo libro, “Eroi senza medaglia”, traendone tantissima commozione (anche lui come Valzella, benché cieco, fu trascinato fuori dalla sua casa e assassinato il 29 aprile 1945. Morì stringendo tra le mani la scarpetta della sua bimba di soli sette mesi).
MILANO – 31 ottobre 1944 – “Ciancio”, diminutivo di Franco, fratello di mio cognato e commissario di P.S., mi procura all’anagrafe una carta d’identità, che – in seguito – si rivelerà utilissima. Inoltre mi invita a togliermi l’uniforme perché è davvero insolito che un ufficiale della G.N.R. giri disarmato. Ed ha ragione. Qui a Milano, più che altrove nel nord, le azioni del S.A.P. (Squadre di azione patriottica) si moltiplicano con un crescendo pauroso. È facile restare ucciso per strada, magari abbattuto da un “innocente” ciclista. Si respira aria di disfatta nella capitale della R.S.I., nonostante il capoluogo lombardo pulluli di milizie di ogni genere: le “Brigate Nere”, la “Muti”, le “SS italiane”, la “G.N.R.”, la “X Flottiglia MAS”.
Certi milanesi sono stanchi e non soltanto a causa delle bombe alleate, ma, soprattutto, per le privazioni per una guerra che non accenna a finire e, se possono, si scatenano rabbiosamente.
Personalmente, in quei tre giorni, ne ho fatto un’amara esperienza. Entrato in una bar per sorbire un caffè (un surrogato), sono stato ignorato dal cameriere, volutamente. Ero in divisa, in pieno centro – mi pare fosse Via Larga – e ho dovuto, con la coda tra le gambe, lasciare il locale sotto gli occhi beffardi d’una irridente, popputa cassiera.
Così mi sono deciso ad indossare un vestito di Filippo, mio cognato. Non è finita. Passando per Corso Vittorio Emanuele ho assistito alla sfilata di un reparto della X MAS (si trattava del Battaglione “Lupo” diretto al fronte, in Romagna).
Un poveraccio che applaudiva è stato coperto di sputi dagli astanti ed io, prudentemente, mi sono allontanato. Adesso capisco quanto siamo odiati!
Ieri, 30, la radio brevemente ha comunicato che Zara è stata occupata dalle bande di Tito. La notizia era già nell’aria, ma come non rattristarsi per la perdita dell’ultima nostra roccaforte di Dalmazia ?
Immediatamente il mio pensiero è corso ai commilitoni zaratini del 2° btg. M. “Venezia Giulia”, ai dalmati della Compagnia Vukassina (dal nome dello studente – granatiere zaratino Antonio Vukassina, Medaglia D’Oro al valor Militare, caduto il 7 giugno 1943, difendendo il retroterra di Zara dai partigiani comunisti slavi), che mai potranno ritornare nelle loro case e mi sono venute alla mente le parole del loro struggente canto.
“Il 30 ottobre i tedeschi abbandonano la città. Gli slavi la occupano il giorno successivo. Non trovano resistenza. La distruzione di Zara continua con le deportazioni e con le esecuzioni capitali. Uomini e donne scompaiono senza ritorno. Sugli alberi del retroterra compaiono le liste dei condannati con la precisazione: “L’esecuzione è stata eseguita”. La morte viene data per fucilazione, per annegamento, per impiccagione e per lapidazione.
Ecco alcuni nomi: Antissimi Miro, ragioniere presso la Prefettura, annegato in mare; i fratelli Bailo, costretti a scavarsi la fossa prima della fucilazione; Benevenia Lucio, annegato; Calmetta Cristofaro, ucciso a sassate, Calmetta Alessandro e Matteo, costretti a scavarsi la fossa prima dell’esecuzione; Cattich Antonio, annegato; Cerlienco Maria, vedova Sabalich, affogata nel mare di Diclo; Cubrich Michele, impiccato a Torretta di Zaravecchia; professor Fiengo Vincenzo, fucilato nel cimitero; gli industriali Luxardo Pietro e Nicolò, quest’ultimo con la moglie, trucidati per annegamento in mare; Sorrentino Vincenzo, Prefetto, fucilato a Sebenico nel 1947; Vicina Pietro, farmacista, annegato con una pietra al collo assieme a cinque membri della famiglia, compresa una bambina di otto anni (ma riuscì a trascinare con sé uno degli aguzzini).
Due sole testimonianze per indicare il clima di terrore instaurato a Zara.
Il Sottotenente Antonio Calderone in una deposizione del 6 aprile 1945 racconta: “Dopo che nella giornata del 7 e 8 novembre 1944 furono fatti uscire dai sotterranei della Caserma Vittorio Veneto, una ventina di agenti di P.S. ed una trentina di civili, furono trasportati assieme ad altre venticinque persone nell’isola di Ugliano con un trabaccolo. Dopo che i partigiani accompagnatori hanno consumato il pranzo e bevuto abbondantemente, vengono invitati i primi 25 a lasciare i loro abiti e rimanere solo con le scarpe, i pantaloni e la camicia. Eseguita tale operazione tutti vengono avviati lungo un sentiero terminante in un precipizio a picco sul mare, già ovviamente prescelto per l’esecuzione, e qui massacrati come cani. I cadaveri finiscono nel burrone. Liquidati i primi, i partigiani predetti tornano indietro per eseguire la stessa operazione con gli altri. Difatti, anche questi vengono invitati a togliersi gli abiti e a rimanere solo con gli stessi indumenti come i primi; mentre le vittime si spogliano, vengono raccolti tutti i documenti ed ogni sorta di carta tenuta dagli agenti di P.S. e si procede alla loro distruzione con il fuoco. Questo secondo gruppo, come il primo, viene avviato per lo stesso sentiero, ma prima di raggiungere la località predisposta dai titini per l’esecuzione, l’agente Nigro Luigi, con altri colleghi di robusta costituzione, assale uno dei partigiani sottraendogli il MAB (moschetto mitra) e dopo una confusione tremenda, mentre il Nigro cade sotto le raffiche dei “Druzi” col grido di: “VIVA L’ITALIA” sulle labbra, un altro – non meno coraggioso – spara sui partigiani accorsi. Nella confusione tre degli agenti si tuffano dal precipizio in mare ed uno di essi, l’agente ausiliario Bestini Alessandro, riesce a salvarsi raggiungendo a nuoto un’isola vicina….”
Altra testimonianza: “Il 25 luglio 1945, il Capitano Ghirin Ernesto inviò una relazione alla Presidenza del Consiglio, nella quale narra, tra l’altro,: Nel novembre del 1944 venne fucilato Costa Ermenegildo, custode della Banca dalmata di sconto, padre di ben dieci figli. La moglie del predetto, recatasi a bordo di un incrociatore inglese alla fonda a Zara, chiese assistenza. Dopo essere sbarcata in Riva Cereria con i viveri ricevuti da costoro, venne presa dai titini e buttata in mare. Gli stessi marinari inglesi, che avevano assistito alla brutale scena, la trassero in salvo e, sotto buona scorta, l’accompagnarono alla propria abitazione”. (Rocchi don Flaminio, “L’esodo dei Giuliani, Fiumani e Dalmati”).
Una statistica pubblicata nel 1946 dall’avvocato Gavino Sabadin, che visse a Zara e che fu il primo Prefetto di Padova dopo l’ultima guerra, ci offre i seguenti dati da tenere a mente:
Popolazione di Zara prima della guerra | 21.372 |
Fucilati dai tedeschi | 11 |
Deportati in Germania | 165 |
Morti sotto i bombardamenti anglo-americani | 4.000 |
Uccisi dagli slavi | 2.000 |
Prigionieri di guerra | 161 |
Profughi dopo il conflitto | 13.500 |
“Perché tanta furia devastatrice contro questa minuscola città che non era né una base navale né una fortezza militare e non possedeva industrie belliche?
Al centro della Dalmazia, Zara era un floridissimo “enclave” tutto italiano. Le famiglie slave erano solo dodici. Dunque una spina nel fianco della Jugoslavia, un’isola veneta di incomparabile bellezza di fronte all’arretratezza del circondario e al grigiore di altre città portuali – già della Serenissima – divenute sotto il dominio croato scali semilevantini. Per questo andava sacrificata.
Nel raggio apocalittico di distruzione e di morte, anche la piccola, indifesa Zara fu presa di mira, spietatamente. Ma, nel nostro caso, per la verità, non tutta la colpa di quanto accadde (56 incursioni aeree in un anno) va attribuita agli anglo-americani.
Si potrebbero raccogliere, a tal proposito, testimonianze quanto mai precise, delle quali farò cenno, sulle responsabilità parallele, anzi maggiori, degli slavi.
Furono essi, spinti da un odio atavico, reso più crudo dall’esasperazione della guerra, a volere la pressoché totale distruzione di Zara. O meglio, per non generalizzare, furono i capi del movimento titino – comunista che ereditarono nel loro sangue, dalla vecchia “intellighenzia” monarchico conservatrice del giovane regno “mosaico” jugoslavo, l’avversione all’Italia, a far colpire a morte una minuscola città che essi consideravano una spina nel loro fianco, solo perché gli abitanti di quella città avevano il peccato d’origine di essere e di professarsi fieramente italiani.
L’unica eredità, infatti, che la nuova classe dirigente jugoslava raccolse di buon grado dalla vecchia, fu l’odio e il disprezzo verso la maggior civiltà nostra, proprio perché la nostra civiltà significava necessariamente superiorità nei loro confronti, ed essi questa superiorità non volevano ammetterla”. (Antonio Cattalin, “I bianchi binari del cielo”).
Zara è perduta, per sempre. Poi toccherà, forse, a Fiume, a Pola, a Gorizia, a Trieste. Ciò significa che io (e la nostra parte) dovrò tra breve affrontarli quegli “annegatori”, impiccatori, fucilatori, lapidatori e sarà tremendo, ma più terribile sarà uscirne vivi, sopravvivere alla catastrofe incombente, perché nessuno si illude di poter sfuggire alla sorte che già su di noi si addensa funerea. E se ci sarà dato di scamparla qui, cosa ci attende al di là dell’Isonzo?
UNO SQUARCIO POST MORTEM….
La Signora Verna Jurkic Girardi, polesana, vice ministro dei beni culturali della neonata Repubblica croata ha affermato – maggio 1992 – che: “Distruggere i monumenti di Zara e della Dalmazia, significa non solo insultare la civiltà di una città, di una regione, di un popolo, ma anche la civiltà tout-court”. Da quale pulpito ignobile arriva la predica! Non ha sentito il bisogno di ricordare che il primo “insulto” ai segni della civiltà latina e veneziana in Dalmazia fu portato nella notte tra il 1° ed il 2 dicembre 1932, con la distruzione dei Leoni marciani di Traù, voluta dal Governo jugoslavo che premiò il Comandante della efferata spedizione, capitano Ivo Ancic’, con il cavalierato dell’Ordine della Corona jugoslava.
Seguirono altri leonicidi in tutta la Dalmazia, tra i quali quello del più maestoso dei Leoni di Traù, meravigliosa opera dello scalpello di Nicolò Fiorentino. Il secondo “insulto” ai segni della civiltà latina e veneziana – questa volta di Zara – fu portato dall’aviazione americana nel corso del breve conflitto italo-jugoslavo del 1941.
Il giorno 9 aprile di quell’anno, in un breve ma intenso bombardamento, venne distrutto il Teatro Vecchio e del Conte, mentre – per un vero miracolo – non venne distrutta la Biblioteca Paravia, sfiorata da una bomba, i cui preziosi manoscritti formano ancora oggi il nucleo centrale della Naučna Biblioteka di Zadar (?!). seguirono, dal 2 novembre 1943 al 31 ottobre 1944, su Zara i 54 terribili bombardamenti anglo-americani voluti da Tito, che rasero praticamente al suolo la cittadina distruggendo anche il prezioso Battistero, senza contare gli sfregi apportati dalla canaglia ai Leoni marciani di Porta Marina, opera illustre del Sammicheli.
Questi titini hanno degni emuli anche dove si ritiene che una “superiore” civiltà possa arrestare, in nome della pietà, l’assassina mano del fratello.
Se ripenso con quale batticuore a febbraio del ’43 non vedevo l’ora e il momento di lasciare Padova per raggiungere la sospirata …Oasi di pace!
FIUME – 3 novembre 1944 – Sbucando improvvisamente tra i colli di Santa Caterina e Tersatto, proprio sulla cartiera, alle cinque del pomeriggio quattro – cinque caccia bombardieri americani bombardano il naviglio da guerra tedesco ormeggiato al molo Genova. I cannoni delle navi aprono il fuoco e uno degli aerei si allontana lasciandosi dietro una lunga scia di fumo.
FIUME – 4 novembre 1944 – Dalle 7,30 alle 8,20 una trentina di Douglas Bomber USA – forse irritati per l’insuccesso del giorno prima – picchiano sul porto a ondate successive, seminando la morte tra gli operai. Affondato un piroscafo in disarmo, fermo nel bacino di carenaggio, una motozattera e altre piccole imbarcazioni.
MATTUGLIE – 5 novembre 1944 – In mattinata – in un vile agguato preparato sin dalla sera prima a qualche metro dalla sottostazione elettrica – un milite, Avelino Mikulich, ex caporale del Genio, è assassinato dai “druzi”. A venti passi dal luogo c’era una casermetta tenuta dai “nediciani”, ma costoro, pur avendo udito la fitta sparatoria, si sono ben guardati dall’intervenire, dando addirittura tempo ai partigiani di portarsi via il cadavere (che non fu mai più ritrovato). Opinione condivisa: quando si scanna un italiano, rossi e bianchi si alleano.
FIUME – 6 novembre 1944 – A ritmo crescente si susseguono gli attacchi aerei terroristici sulla stremata città. Tre ondate il 5 con 125 morti e centinaia di feriti, soprattutto a causa dell’affondamento della motonave “Roma”, ferma al molo Longo, e di una torpediniera tedesca.
Il 6 oltre 50 morti e un centinaio di feriti nella zona retrostante la Stazione ferroviaria, lo scalo marittimo del Punto franco, la Manifattura Tabacchi. Si intensificano di pari passo gli attentati ai treni da e per Trieste. La tratta presa di mira è quella tra san Pietro del Carso e Poggioreale. Nell’ultimo attentato si registra un altissimo numero di vittime, più di 50, dei quali 20 fiumani, essendo gli altri bagarini d’Oltre Ponte (Sussak). È per me incomprensibile l’accanimento dei titini contro i loro confratelli in tutto.
Sanno perfettamente che i convogli militari, truppe o merci, oltre a marciare a bassa velocità sono preceduti da una staffetta formata da un carro – pianale colmo di pietrisco. Oggi ne ho sentita una che mi ha lasciato di stucco: i mitragliamenti effettuati da “Pippo ferroviere” sulla Statale 14 sono opera di piloti badogliani, cioè italiani.
MATTUGLIE – 12 novembre 1944 – Altra sveglia repentina. Neppure il tempo di lavarci il viso. In gran fretta prendiamo il posto su due Lancia R.O., battendo le scarpe per il gran freddo, che è così intenso all’esterno da costringerci ad indossare sull’uniforme qualsiasi cosa possa tenerci al caldo !
Una sessantina di soldati tratti di forza dalle furerie e addirittura dalle cucine, per poter dare il cambio a chi ha già superato il numero di uscite consentito dalla rotazione.
Sono frastornato e molti militi lo sono più di me. Per quel che mi è dato di vedere, alcuni se ne stanno a testa china, appoggiati sulla spalla del compagno vicino, gli zainetti a terra, e tengono le mani ficcate sotto il bavero dei cappotti, perché non tutti posseggono un paio di guanti. C’è chi, nervosamente, si stropiccia gli occhi e borbotta maledicendo i capi, la guerra, i tedeschi. Ed ho qualcosa su cui soffermarmi: la penuria di vestiario è tanto grande che alcuni soldati sulla camicia indossano maglie scollate dai colori più diversi e tutti, me compreso, a causa dell’infagottamento mostriamo toraci gonfi e brache appallonate.
Ci si sente, oltre che ridicoli, molto accattoni, perfino un tantino “clown” e dovremmo – stando alla propaganda – battere gli Alleati !
I camion traballano sulle carrarecce, il loro movimento concilia il sonno dei più giovani. Ce ne sono di giovanissimi; forse diciassette anni, anche meno. Tetamo ne conta solo 16. Ed io, ventenne, mi sento addirittura decrepito!
MATTUGLIE – 15 novembre 1944 – Allarme conclusosi con niente. I titini, nella tratta famigerata, hanno piazzato una mina a pressione sotto le traversine, provocando la morte di 60 innocenti viaggiatori. Benché svegliati per tempo, correre non è servito a nulla. I feriti, soprattutto, sono deceduti a causa del freddo polare. Inutile aggiungere che i soccorritori sono arrivati dopo quattro ore.
MATTUGLIE – 18 novembre 1944 – Una notizia che mi ha fatto sganasciare dalle risate. Recatomi a Trieste per prelevare del materiale di casermaggio alla “Beleno”, ho saputo che il Maggiore Ledo, il fustigatore dei “terroni”: <…che avevano spalancato le porte al nemico….>, ha disertato il Battaglione “M Venezia Giulia”, rifugiandosi tra i partigiani della Val d’Ossola.
Nel pomeriggio, due aerei, riconosciuti per Macchi, mitragliano una batteria tedesca piazzata sulla Riva Ammiraglio Cagni. Strepito tanto, danno nessuno.
FIUME – 20 novembre 1944 – Teatro “La fenice”, alle spalle della redazione del giornale “La Vedetta d’Italia”. Oggi si terrà uno spettacolo per le FF.AA. tedesche e italiane. Fra gli attori lo sboccatissimo – venerando – comico Cecchelin, che si esibisce con parodie, barzellette un pochino stantie e, soprattutto, allusioni alle minchionerie dei capi, Mussolini e Hitler compresi. Naturalmente ottiene grandi applausi e suscita risate ed ovazioni. (Ma il vecchietto non era poi così bravo e gioviale. Dopo la liberazione venne condannato a parecchi anni di galera – che non scontò – per aver assassinato con le sue “tremanti” mani due colleghi rivali in arte).
FIUME – 26 novembre 1944 – Una competizione alla buona, qualcosa che ricorda i “Ludi Juveniles” del passato regime, all’insegna dei “primi della classe”. Presiede la Commissione il professor Silvino Gigante, preside dello “Scientifico”. Ed io sono tra i primi dieci. Proprio così. Il collega Sottotenente Nicola Ferrara, editorialista a tempo perso della “Vedetta”, mi proclama – abbracciandomi – “enciclopedico”, invitando tutta la ghenga presente alla premiazione, a brindare per me. Così Niny, Relly, Stroligo, La Gattolla, il Maggiore Viola, detto “finestra chiusa” (è cieco d’un occhio”, “alzano il nappo” in mio onore. È presente anche Osvaldo Ramous, direttore della “Vedetta” (nonostante le tante “benemerenze fasciste”, nell’aprile del ’45 passò ai titini). Rientro a Mattuglie che, da circa due ore è stata spezzonata da un aereo. Bombe sulla Stazione.
FIUME – 1° dicembre 1944 – In località Pioppi violento e breve scontro a fuoco tra una pattuglia del nostro reggimento e alcuni gappisti. Il Vice Brigadiere Lucio Kalanich, vegliotto, colpito al capo, morirà in serata all’ospedale Santo Spirito. Prima di cadere colpisce a morte due assalitori, Giuseppe Duella e Mario Gennari, quest’ultimo ricercato per omicidio.
FIUME – 6 dicembre 1944 – Festa di San Nicolò. Il prefetto Spalatin ordina la distribuzione straordinaria di mezzo etto di frattaglie e di un etto di pane a testa, fuori tessera. Ai bambini, al di sotto dei sei anni, un quarto di latte. Una vera pacchia !
Il freddo è insopportabile e non c’è legna da ardere in città e questo, benché, Fiume sia letteralmente circondata da fittissimo bosco. Ma chi andrà a tagliarla? L’ex collega, Tenente Vittoria, spingendo una carrozzina per bambini, si presenta in caposaldo e mi supplica di dargli un po’ di ciocchi.
Come faccio a negarglieli ?
Anche noi non scialiamo e per aver segato con i miei uomini un’annosa quercia nel cimitero di Smogori, ho dovuto litigare con un ufficiale tedesco lì chiamato dalla guardiania. Si è taciuto soltanto quando gli ho rinfacciato – a muso duro – la miseria cui siamo sottoposti, benché si rischi la vita proprio per loro, per i “nostri amati alleati”.
FIUME – 7 dicembre 1944 – Scoperta una bomba ad orologeria sotto il lungo banco di mescita del Caffè Centrale, in Piazza Dante. Se fosse scoppiata, a quell’ora stabilita, avrebbe fatto una strage di poveracci. Se anche questa è opera dei gappisti, riesco a malapena ad immaginare in che mani finirà questa città.
FIUME – 8 dicembre 1944 – Un ordigno esplosivo esplode in Via Mameli causando un gran numero di feriti tra i malcapitati passanti. Ma è un giorno da menzionare per l’improvvisa – anche se attesa – comparsa in sottostazione del Sottotenente Bruno Carletti (Brunello). Proviene dalla Scuola Allievi Ufficiali di Fontanellato ed è un pescarese. È, soprattutto, un entusiasta. Come anticipato, mi era stato preannunziato il suo arrivo da una ventina di giorni per sostituire il malandato mio vice, Maresciallo Raimondo Onzati, ex carabiniere, che ora potrà essere finalmente essere collocato in congedo. Carletto sostituirà Onzati anche nella mezza cameretta che occupo, assieme ai viveri a secco e ai pezzi di ricambio delle armi, nonché alle munizioni. Una tenda, ricavata da una coperta da casermaggio, divide il misero abituro.
MATTUGLIE – 13 dicembre 1944 – Oggi Santa Lucia, giornata particolarissima per noi Dalcich, vincolati ad un voto pronunziato da mia madre, quando, dodicenne, riacquistò la vista. Guerra o no, abbiamo sempre rispettato il suo volere ed io lo farò nonostante il contorcimento viscerale, perché a vent’anni si mangerebbe qualsiasi cosa.
Il milite Rosario Miccichè, catanese e valente sarto, mi ha confezionato uno splendido pastrano con: vecchio cappottone grigio-verde, canapina, sostituita dalla tela di uno zaino, bottoni tolti ad una tenda da campo, il tutto superlativamente ben riuscito. Dalcich, molto felice, compensa il “sartore” con lire duemila, pacchetti di tabacco tre, scatole sigarette zaratine due, dadi per giocare e carta da lettere. (Aggiungo che di sigarette ne avevo parecchie perché, semplicemente, non fumavo. Non mi vergogno di confessare che le vendevo sotto la Torre Civica a Fiume, come un qualsiasi bagarino. Dirò poi perché).
MATTUGLIE – 21 dicembre 1944 – Intensi rastrellamenti nelle località dell’alta Istria, già passate al pettine durante il trascorso mese. Questa volta fa da battistrada un ufficiale delle SS, il Tenente Walther, ridanciano e coraggiosissimo, che suscita grande entusiasmo tra i nostri militi specie se – come ha più volte detto – li preferisce ai suoi per azioni rischiose.
MATTUGLIE – 24 dicembre 1944 – Si festeggia la Santa Notte anche nel nostro caposaldo. Brunello ha allestito un alberello (un ramo di ginepro), appendendovi, al posto dei doni tradizionali e della palle di vetro colorato, bombe a mano, pallottole, caricatori e altre macabre amenità.
Ma la vera grande sorpresa, inattesa, è stata riservata ai fiumani, che, per ordine del solito Spalatin, hanno ricevuto mezzo litro di marsala e altrettanto di cognac, più due etti di carne di manzo a testa.
Il prefetto s’è premurato di far conoscere che la grazia di Dio è un dono della R.S.I. (chissà come l’hanno fatta passare senza cascare nelle grinfie tedesche!). La sera si presenta alla porta carraia la Signora Tetamo, madre del giovane Luigi e ci consegna una focaccia dolce infarcita di uvetta e canditi, nonché un grosso pacco consegnatole dalla fiduciaria femminile del fascio fiumano, Signora Biancorosso. Contiene calze, dieci paia (e noi siamo ventidue…). il freddo non accenna a diminuire e la legna scarseggia. Il fatto è che non abbiamo un carro per poterla andare a prendere nel bosco, sopra Mucici. Inutile chiedere ai contadini; non ci presterebbero nulla, meno che mai i buoi per trasportarla.
Ho visto un paio di volte la Mara Serdoc. Se la passano malissimo, perché non hanno denaro per ricorrere alla borsa nera e così, tra il serio ed il faceto, chiede a me se non ho qualcosa da passarle, convinta – Dio sola sa perché – che noi militari ce la spassiamo allegramente. Viviamo miseramente e più d’una volta m’è toccato di ricorrere al borsaro nero Ambrosich, padre di Ive (che il 12 settembre 1943 mi denunziò ai titini per farmi fucilare, quale italiano!), per poter scambiare le poche razioni di margarina e zucchero con pasta e patate.
MATTUGLIE – 27 dicembre 1944 – A proposito della Serdoc, Brunello è andato nel pallone! Ha preso una cotta tremenda per la sorella di Mara, Anna, una rossa procace che io ho avuto la dabbenaggine di presentargli.
Ora, secondo il timido infuocato collega, dovrei fare da paraninfo. Ma l’approccio – tentato davanti al negozio dei Veranda – fallisce miseramente. La fanciulla non ha interesse alcuno ad impalmare (perché Carletti desidera sposarla) un misero sottotenente; ha ben altre aspirazioni, cinema compreso!!
L’innamorato si incupisce al punto da giungere alla fine della giornata senza rivolgere la parola a nessuno (quattro giorni dopo fu sul punto di commettere una strage e soltanto Iddio sa come fu evitata).
MATTUGLIE – 31 dicembre 1944 – Capodanno è di domenica. In casa Serdoc si fa festa e il salotto a pianoterra è zeppo di impomatati “nediciani” e così, benché non ci abbiano invitati, io e Brunello – divise pulite e stivali lucidati – ci presentiamo con una bottiglia di “Refosco”. Vogliamo solo porgere gli auguri e poi filarcela. Ma non appena varchiamo la soglia di casa, la faccia di Brunello diventa cinerea; ha visto il “suo” amore abbrancata strettamente ad un baffuto “porucnik” (aspirante ufficiale) serbo, ha subito portato la destra alla fondina della pistola e provocato la fine delle danze e sguardi sbigottiti.
Ho subito capito che non ci avrebbe messo un istante a tirar fuori la Beretta e a sparare. Il cuore mi batteva pazzamente, non sapevo cosa fare, eravamo con le spalle all’uscio ed i ballerini tutti disarmati. Per fortuna c’era chi non aveva perso la testa: Mara. Si è avvicinata e mi ha invitato ad uscire portandomi dietro lo spasimante. Così, arretrando, ho trascinato letteralmente Brunello sul ballatoio, mentre nell’interno della casa, una voce stridula chiedeva alla mamma di Mara perché mai ci fossimo presentati!
Tornammo alla sottostazione senza pronunciare parola, stappammo la bottiglia e ce la scolammo nel più assoluto silenzio, come si usa nelle più note tradizioni “consolatorie”. Non potevamo desiderare un Capodanno migliore!
MATTUGLIE – 2 gennaio 1945 – Un San Silvestro da seppellire senza rimpianti. Gelo e maltempo infieriscono su tutta l’Europa occidentale e in Italia, in particolare. Nel Belgio, dopo alcuni smaglianti successi, la Wermacht è bloccata dagli americani a Bastone e la Germania ora si prepara a combattere in casa. È il canto del cigno.
Le nuove strombazzate armi non esistono affatto anche se “Baffetto” parla sempre di ora “X”. Carletti ci crede ancora. Una cieca fiducia nell’uomo che ha incendiato il mondo intero. Se solo potessi andarmene, chiudere definitivamente con la guerra, salvare la mia povera vita…. Le giornate si succedono monotone, tra una partita a carte ed una svogliata passeggiata a Fiume o ad Abbazia. Concedo molti permessi ai miei scoglionati militi che, guarda caso, rientrano sempre!
MATTUGLIE – 7 gennaio 1945 – Il freddo non accenna a diminuire e ci è toccato “sortire” sia il 4 che il 5. S’è vagato sulle montagne tra la strada ferrata e la statale. La temperatura sull’altopiano è scesa sotto i 15 gradi ed in alcune zone la neve è così alta che ci si affonda sino al bacino. La bianca coltre qualche volta ci costringe a girare in tondo alla ricerca della via del ritorno. Si procede silenziosamente, in fila indiana, magari tenendoci aggruppati, i riflessi semi-appannati, stanchi da morire. E non serve a nulla. I titini hanno l’iniziativa. Ora riposano, come i serpenti. Attendono la primavera, quando cioè gli alleati arriveranno al cuore stesso della Germania.
Nella spianata d’un paesotto ho visto (e preso) per la prima volta un tricolore jugoslavo. Tornando alla sottostazione l’ho fissato al muro della cameretta. Triste, inutile trofeo.
FIUME – 8 gennaio 1945 – Stamani sulla litoranea Volosca-Borgomarina, all’altezza dello Stadio comunale, il milite Alberto Giusti è stato aggredito e ucciso a coltellate. Sull’alto muro di cinta, qualcuno, col minio rosso, ha tracciato una scritta: “NAROD U RATU, PASVI NJEZINI NAPORI TEZE ZA POBJEDOM” (La Nazione è in guerra ed è tutta tesa verso la Vittoria). Splendido!
L’assassinato, cinquantenne, aveva quattro figli ed era il portalettere del Reggimento.
MATTUGLIE – 11 gennaio 1945 – Ieri una squadra di baldi giovani militi, passando per Franci e Breghi, siamo scesi ad Abbazia. Era una giornata magnifica e c’era perfino un caldo solicello. Giunti al 40 Box, in Via Garibaldi, a me è saltata in mente la bizzarra idea d’andare a trovare il “Principe”, il folle buono conosciuto in tempi migliori.
Così, il “Reparto” marciante fieramente, ha varcato la soglia della Villa e ho chiamato a gran voce “S.A. Reale”, che – meravigliatissimo – è apparso sul portone di casa. Scattando sull’attenti ho presentato la “truppa” ed ho pregato S.A. Reale di lasciare la residenza e seguirci sino a Volosca, dove la corazzata “Nelson” attendeva per imbarcarlo e portarlo a Londra, ospite dei reali d’Inghilterra. Il milite Benco, che mastica un po’ di inglese, ha intonato il “God save the King” mentre gli altri (accidenti a loro) non hanno più potuto trattenere le risa, fatto questo che ha provocato la comparsa della sorella del “Principe”, con relativo fuggi fuggi della “scorta” d’onore piuttosto ignominiosamente. Rifugiatici all’Hotel Palme, abbiamo brindato alla salute di S.A. Filipovich con del pessimo vermuth.
FIUME – 13 gennaio 1945 – Rapporto per gli ufficiali comandanti di reparto. È arrivato il Segretario del P.F.R. Pavolini, reduce da un giro “esplorativo” in Venezia Giulia. Forse nota le nostre facce, soprattutto quella scurissima di Porcù; senza perifrasi – com’è suo costume – il Comandante invita Pavolini a dire chiaramente se “questa è ancora terra italiana o tedesca, senza menare il can per l’aia, perché possiamo benissimo capire fino a che punto il discorso del Duce sia condizionato…”. Sembra che il discorso del Colonnello non piaccia al Maggiore Von Goohl, perché, non invitato, interviene per fare presente che “la Germania non ha interesse alcuno alla Venezia Giulia” e, lasciando tutti assai diffidenti, dopo che – è inutile rimestare – hanno più volte tradite le attese degli italiani per favorire i croati di Pavelic.
Pavolini assicura che “questa terra è italiana e resterà tale. Tra qualche settimana giungeranno forze fresche per garantire i confini. La XMas è gia schierata nel Goriziano…”.
MATTUGLIE – 14 gennaio 1945 – Nella sede della 2^ Compagnia pranzo per festeggiare il compleanno del Tenente Walther. Sono presenti una decina di tedeschi, ma, pur essendo indiscutibile la bravura del nostro cuoco, il cibo risulta immangiabile. “Che potevo fare con patate secche, margarina, verdure legnose, pane ammuffito…”. Ha ragione il nostro cuoco.
FIUME – 21 gennaio 1945 – Bombardamento aereo. Numerosi i morti. Per la prima volta in città non vengono distribuiti i generi alimentari tesserati. La scusa: i treni non funzionano e i camion sono requisiti. E non si trova niente neppure al mercato nero; troppo pericoloso avventurarsi nel Friuli. Il denaro non vale più nulla, qualsiasi cosa si baratta. Quanto durerà ancora?
I Russi avanzano e sono già in Slesia.
GIORDANI – 25 gennaio 1945 – Cambio. Con oggi sono comandato alla casa-ridotta di Giordani, un complesso, già negozio del Signor Manfredi (scappato a Modena). La casa è praticamente in mano al “guardiano” Stjepan, ex granatiere di Sardegna, ma ora (ci è stato riferito da alcuni delatori) riconosciuto “politruk” (commissario politico) della zona. A me sta bene perché, abitando la moglie ed il figlio con noi, difficilmente saremo attaccati. Ai miei ordini una quindicina di militi, alcuni ex carabinieri, tutti desiosi di tagliare la corda alla prima occasione. Bisogna metterli al lavoro e per prima cosa farò costruire una piazzola per il mortaio.
Niente di peggio che lasciare poltrire i soldati !
A Mattuglie, mio fratello mi sostituisce nel comando della sottostazione.
GIORDANI – 28 gennaio 1945 – “Pippo” mitraglia e spezzona un treno merci all’uscita del tunnel di Ruccavazzo. I tedeschi di scorta scappano e la gente si precipita per ripulirlo. Trasporta tabacco e sigarette. Ne approfittiamo un po’ tutti, anche la Mara perché il tabacco si può scambiare.
GIORDANI – 30 gennaio 1945 – Purtroppo mi sbaglio; i militi di questo caposaldo sarebbe meglio perderli che trovarli. Alcuni sono delle vere canaglie, come un certo Naccherino, un catanese attaccabrighe e indisciplinatissimo, che non nasconde affatto i suoi sentimenti. Altri, rebus due, ex carabinieri, un ternano ed un veronese, dallo sguardo infido. Incomprensibile il mio vice, il Sergente Maggiore Zelko, detto “gambestorte” (non necessitano spiegazioni ). Forse se ne salvano un paio, ma non di più. Regna qui un’atmosfera di rassegnata attesa. Ho scovato una sentinella addirittura che dormiva….: “E’ stata una cascaggine, Signor Tenente….”.
GIORDANI – 31 gennaio 1945 – Ho condotto Rydy, figlio di Stjepan il guardiano, al di là della linea ferrata e gli ho insegnato a sparare col moschetto 91/38 da cavalleria.
Entusiasta ha esclamato: “Evviva…da grande voglio diventare granatiere di Tito…”. Ottimo. Il padre granatiere di re Vittorio Emanuele e il figlio della “Golubica bjela” (bianca colombina, cioè Tito, speranza e salvezza dei popoli jugoslavi).
GIORDANI – 1° febbraio 1945 – Il freddo e l’ignoranza causano una disgrazia le cui conseguenze potevano essere gravissime. Un milite ha tentato d’accendere la grossa stufa di maiolica servendosi di una boccetta di etere. Esplosione e fiammata che lo ha colto in viso. Ustionato orrendamente, bruciati capelli e sopracciglia. Per fortuna – acquartierato nella contigua Caserma Flondar – c’è un battaglione “nediciano”. L’assistente sanitario salva dalla cecità il malaccorto, ed io dovrò spedirlo a Fiume, in ospedale (e privarmi di un uomo).
Domani allargherò il campo di tiro per la mitragliatrice Breda dietro la fattoria e così ammucchierò un bel po’ di legna da ardere e farò lavorare i cialtroni. Sempre domani funzionerà un ordine di servizio permanente, elencante i nominativi dei militi preposti all’ispezione della linea ferrata da Ruccavazzo a Vele Lasi. E praticherò un foro sotto la finestra che s’affaccia sulla Statale 14 per potervi piazzare un mitragliatore in caso di bisogno. Se non faccio qualcosa, rischio qui di impazzire. Non riesco a scambiare due parole se non col mortaista, il napoletano Ciabattoni.
GIORDANI – 3 febbraio 1945 – A Prelose, in alta Istria, durante una puntata, il collega Tenente Balestra, comandante del caposaldo di Vele Lasi (3 km dal mio), cattura una staffetta partigiana, una ragazza piuttosto formosa, ma rifiuta di darla ai tedeschi, così – tutti d’accordo – finisce “Aiutante di cucina” al comando della 2^ Compagnia.
FIUME – 4 febbraio 1945 – Pesante bombardamento aereo condotto da oltre 130 fortezze volanti americane, a ondate successive, nella giornata di ieri. Ormai non fa più notizia, anche se i fiumani del caposaldo se ne stanno in silenzio, angosciati per la sorte dei parenti. Così altro non mi resta se non concedere permessi per la città.
Dalla mia finestra sul retro ho visto fioccare la neve, per ora strati larghi come ovatta.
Il monte Stanici è completamente incappucciato, tanto da confondersi con le basse nubi del mattino. Mai visto un inverno più freddo, nemmeno quando, nel gennaio ’42, eravamo a Sussak. Ma ora ho legna in abbondanza da quando, messi gli infingardi al lavoro, ho ripulito la dolina sotto casa. Stjepan, a proposito, si è lamentato adducendo a sua scusa che quegli alberi avevano più di cento anni….”Pazienza! In primis, vivere!”.
GIORDANI – 5 febbraio 1945 – In mattinata mi sono recato a Fiume per “incoraggiare” Brunello che prendeva parte – calzoncini corti e scarpe da tennis – ad una gara podistica tra le varie FF.AA. della città. Partecipava anche Relly, che si è classificato quarto. Alla sera, visita inattesa in caposaldo di due poveracce, due “lavoratrici” della Todt fuggite dal campo tedesco di Zaluche. È commovente sapere che esistono ancora persone disposte ad accordarci la loro fiducia in casi disperati!
Dopo la cena le ho messe a letto (cedendo il mio) e domani le farò montare – vestite sommariamente da soldati – nella tradotta per Trieste. Alla faccia dei nazi!
GIORDANI – 7 febbraio 1945 – il collega la Gattolla mi avverte “confidenzialmente” che presto avremo l’ispezione del Comandante il CCIV Comando regionale, Generale Esposito. Urge “imbellettare” il fortilizio. In gergo militare significa dargli un aspetto guerresco e cioè farlo apparire come il fortino di Giarabub!
Raffiche di mitra e fucilate sulla facciata, avendo però cura di risparmiare i vetri (introvabili!). Così la mia “ridotta Capuzzo” assume un aspetto penoso! Che farci ? La vita arcadica che vi si conduce, non incontra la simpatia dei nostri gallonati superiori.
FIUME – 8 febbraio 1945 – Il Comandante compie 42 anni e ci convoca per il pranzo nella saletta riservata di Panciera. Presenti la maggior parte degli ufficiali, ci siamo abbuffati come porcelloni, grazie all’apporto….. generoso dei rastrellamenti. Perché tacerlo? Noi ci comportiamo alla stessa maniera dei nostri nemici. Rubiamo ciò che non abbiamo. Io – affamatissimo sempre – mi sono ingozzato di antipasti e così non ho potuto mettere altro nello stomaco. Che figura! Ed ho anche bevuto a garganella.
GIORDANI – 10 febbraio 1945 – Sul costone ad est del Monte Lome, si scorgono due grandi falò. Segnali per gli aerei rifornitori o fuochi innocenti? Di rumore in cielo se ne sente sempre e allora, a scanso d’essere presi per scemi, col mio mortaista Ciabattoni (detto “Scornacchiato”) spedisco due “pillole” in ghisa acciaiosa sull’obiettivo. Incredibile: un minuto dopo i falò sono spenti. Quel monte, assieme al Monte Maggiore, è sempre stato una roccaforte partigiana.
GIORDANI – 11 febbraio 1945 – Con decorrenza odierna le carte annonarie finiscono al macero perché non saranno rispettati i termini di consegna dei generi alimentari. I magazzini sono desolatamente vuoti. Il mercato Centrale e quello di Braida offrono esclusivamente poche rape, i bagarini più arroganti e pretenziosi che mai. Per dirne una: un chilo di pancetta affumicata costa 2.000 lire (lo stipendio mensile di una maestra, circa 1.800!). Stanotte siamo piombati nei pressi dell’altopiano e a Tatre abbiamo sostenuto un conflitto a fuoco con i “druzi”. Sono scappati lasciando in una baracchetta coperta di frasche, due feriti. Al ritorno ero talmente stremato per la dura marcia sulla neve che mi sono trascinato sulle ginocchia sino alla strada nazionale negli ultimi duecento metri!
Il milite Rahtelli, detto il “Balilla” (sebbene abbia più di 60 anni), suscita risate a non finire, perché la sveglia – che aveva rubato – nel pieno della notte si mette a squillare!
GIORDANI – 12 febbraio 1945 – Con al seguito parecchi reggicoda, si presenta il Generale M.O. Giovanni Esposito. Salamelecchi, battute di tacchi, presentat’arm! Il gallonatissimo m’appare grasso e roseo. Pasciuto e sorridente, mentre i “lecchini” sono pallidi e smorti. Sembra che lungo la strada siano stati attaccati da “Pippo”.
Umano. Dopo l’incidente capitato al Maresciallo Rommel in Francia, il 16 luglio dell’anno scorso, molti pezzi grossi preferiscono stare ingattati, ma non è il caso del “nostro”, che ha un curriculum militare di tutto rispetto. Intanto è Medaglia d’Oro. Io poi ho motivo di gratitudine nei suoi confronti. Praticamente ha salvato mio padre da morte certa nel 1941, quando fu catturato dai partigiani in Montenegro. La Divisione alpina “Pusteria”che lo trasse in salvo, era proprio agli ordini di questo Generale.
(Un doveroso cenno per un uomo che – trascinato dopo la guerra alla sbarra – dimostrò di non essersi mai macchiato d’infamia né d’aver piegato il groppone davanti ai tedeschi. Persino gli antifascisti gli riconobbero questi meriti).
<Gli uffici della Difesa territoriale italiana di Trieste erano agli ordini del Generale italiano Esposito, uno dei pochi generali decenti e fidati dei quali disponeva la R.S.I.
Rainer, alto commissario per il litorale Adriatico, pregò l’Alto Comando, per non offenderlo destituendolo, di farlo allontanare dalla zona d’operazione facendolo promuovere a un più alto incarico, sostituendolo con un uomo di paglia, di modo che il Supremo Commissario potesse assumere poi gli Uffici della Difesa territoriale, ma non riuscì a realizzare il suo proposito, dato che il Generale Esposito rimase a capo del Comando Militare della Venezia Giulia per la R.S.I., sia pure con funzioni essenzialmente formali tali da affermare la continuità della presenza italiana nell’Adriatisches Küstenland, sino alla fine del conflitto e questo benché la sua presenza non avesse potuto impedire che i tedeschi effettuassero la chiamata alle armi di alcune classi per il “servizio obbligatorio di guerra e per il servizio del lavoro”> (E. Collotti. “Il Litorale Adriatico nel Nuovo Ordine Europeo”).
FIUME – 13 febbraio 1945 – Paludato nel mio “scicche” pastrano, giunto in mattinata in città, ho prelevato Katia dalla sua ammuffita cameretta in Braida, l’ho fatta accomodare in treno e l’ho portata a Giordani. Esaudisco una promessa: invitarla a pranzo nel mio fortilizio.
Pranzo meschino, ma resto ancora sorpreso nel vedere come la “minuta” fanciulla “ingolli” ben due piatti colmi di “subiotti” mal conditi. E ne avrebbe mangiato degli altri se il cuoco non avesse portato via la pentola ! Mi piacerebbe sapere di cosa si nutre con quello che offre il mercato !
Una giornata diversa, con un bel solicello e una brezza dolcissima che veniva dal mare. Liberatici dalle preoccupazioni abbiamo “ciacolado”, ricordando gli amici di Arbe, sperando nel futuro, annaffiando le nostre lacrimevoli storie con una bottiglia di vino del Collio, donatami da Niny. E il milite Barbalace, un sentimentalone meridionale, ha cercato di… rovinare l’incontro, pizzicando sulla chitarra alcune malinconiche “melopee” calabresi.
GIORDANI – 14 febbraio 1945 – Uno zazzeruto “cetnico” (irregolari serbi al servizio dei tedeschi) dall’espressione patibolare, mi chiede udienza e Zelko, ammiccando, funge da interprete. “Vedrà, Tenente, che le conviene”. Vuole concludere un “buon affare” con me, italiano. Mi offre oro per molto pane, sigarette e una pistola. Allettante, vero ? E dalla sdrucita “foffaika” (giaccone di pelle di capra) cava fuori un tubetto d’aspirine contenente protesi e denti d’oro…. Dio solo sa quanta gente avrà scannato per strapparglieli “! L’ho letteralmente buttato fuori tra lo sconcerto del mio Vice. Che altro mi toccherà vedere?
FIUME – 15/21 febbraio 1945 – Con due soli giorni di interruzione, il 16 e il 18, la città è immisericordiosamente sottoposta a bombardamento da parte dell’Air Force America! 171 morti, oltre 300 feriti. Danni incalcolabili; centrati in pieno i semidistrutti Cantieri Navali, il Silurificio Whitehead, la ROMSA (Raffineria), la fabbrica Rivolta e innumerevoli caseggiati di Borgomarina e del centro. Colpito il cimitero di Cosala e scoperchiate centinaia di tombe; distrutta la chiesetta di San Michele. L’intera popolazione fiumana è in lutto. I nostri militi – assieme ai pochi vigili del fuoco – si prodigano per sottrarre alla morte sotto le macerie molti sventurati, ma il susseguirsi degli allarmi aerei spesso li costringe a cercare riparo dalle bombe. I sinistrati, con qualsiasi mezzo, vengono avviati agli alberghi della Riviera. Preoccupato per le sorti del mio “vecchio” e di mio fratello (è stata colpita anche la Caserma Macchi alle spalle di Via Milano), sono corso, il giorno 22, in città, all’Ospedale e ho visto i morti distesi sul nudo pavimento. I più sono sfigurati al punto da non essere riconoscibili; sono l’effetto delle bombe dirompenti, quelle ad aria liquida. Tra i cadaveri vi sono ancora alcuni soldati tedeschi allineati in bell’ordine a differenza dei nostri compatrioti, sconciamente ammucchiati dove capita, perfino nei corridori o nell’astanteria. A tanto lutto, va ad aggiungersi, auspice il Deutch Berater, l’arrogante pretesa del “Poglavnik” (Pavelic) di: “..voler assumere il controllo di Fiume…”. Una mossa abile, consigliata, forse, dallo stesso Gauleiter, dimentico d’aver più volte affermato che: “…Fiume è città italianissima…”. Niny mi confida che reparti sempre più consistenti di militari croati hanno già occupato alcune caserme e che un nucleo della “Ratna Mornarica” (marina da guerra) si è già stabilmente insediato proprio nella “Macchi”.
GIORDANI – 22 febbraio 1945 – Nel tardo pomeriggio inattesa visita del Comandante a cavalcioni di una moto “Guzzi”, seguito dall’immancabile Usai. Era reduce da Rupa. Lui non ha paura di affrontare da solo la Statale 14, non ha paura di niente.
GIORDANI – 23 febbraio 1945 – Ieri è stato abbattuto da una “Firling” (mitragliatrice a quattro canne tedesca) un aereo sul cielo di Zabice, pochi Km da Rupa di Elsane. Si trattava di un bimotore americano, un “Martin Baltimore”, ma la sorpresa è stato l’equipaggio: due piloti italiani! Uno era completamente carbonizzato, illeggibile la piastrina al collo; l’altro era il Maggiore Massimiliano Erasi. È doloroso, ma ormai assodato: i nostri aviatori collaborano con le bande di Tito. Ignorano che, a guerra finita, questa disgraziata terra, per la quale sono caduti 600.000 italiani, ci verrà strappata? A che cosa è valso il loro sacrificio ?
Niny lascia Mattuglie; sarà sostituito da Brunello.
FIUME – 24 febbraio 1945 – Ancora bombardamenti e ancora morti. Molta gente abbandona la città, altri vagano tra le macerie in cerca di parenti. Nessuno si crea più illusioni.
GIORDANI – 25 febbraio 1945 – Una variopinta accozzaglia di “cetnici”, donne, uomini e bambini, sfila dinnanzi al caposaldo. Vengono dalla Lika e Dio solo sa quello che hanno passato. In testa al gruppo un “capellone” regge una bandiera nera sulla quale capeggia il motto: “ZA KRALJ I ZA SVOBODA” (per il Re e per la Libertà). Nonostante l’antipatia mi commuove una fede così grande, mi stringe il cuore quell’avanzare dimesso, da cani bastonati. E così ne combino una delle mie. Radunato in gran fretta il reparto faccio presentare le armi. E quell’accolta di straccioni, come per incanto, si ricompone, solleva il capo ed intona un inno marziale. Poveracci! A me non è costato nulla e per loro è stato come un viatico, un conforto.
Con oggi il nostro Porcù deve cedere il comando del 3° MDT all’uomo di paglia di Rainer: il Colonnello conte Montesi Rigetti di Vergato, un cacasottomonocoluto che si è fatto accompagnare dalla “segretaria”, una vistosa biondina, certamente una battona (durante gli allarmi aerei si faceva servire il pranzo nel tunnel ferroviario di Scojeto. Che pena!). Un Comandante se ne va ed è la logica conclusione di un duello impari.
GIORDANI – 26 febbraio 1945 – Le ispezioni a binari e traversine ci riservano sempre sorprese e non tutte gradevoli. Per esempio, abbiamo trovato molte mine a pressione, sei per la precisione, nell’arco di un mese, ma abbiamo trovato anche una scatola di metallo con dentro mille lire in pezzi da cinquanta e…. mutandine di pizzo ! Risatacce e commenti. Le mine le ho consegnate a Zelko perché provvedesse a farle brillare nella dolina, ma lui ha nicchiato nel timore che potessero esplodere prima. Allora le ho fatte ammucchiare nella cantina del caposaldo tra la legna da ardere e Stjepan, pallidissimo, mi ha fatto presente che lui abita nella casa con i suoi ed io: “E allora? Questa fattoria appartiene ad un italiano; è solo questione di tempo. Quando andremo via la farò saltare in aria!”.
Dimenticavo: il miglior cercamine, quello che un fiuto particolare, è il milite Totti, detto, appunto, “bracco”.
FIUME – 27 febbraio 1945 – Stazione Centrale. È un martedì, sul finire della giornata. Reduce da Scojeto (dove mi sono recato per ritirare lo stipendio), attendo un treno locale per rientrare in caposaldo. Mentre passeggio sotto la pensilina semibuia, una scarmigliata donna, ben vestita, il respiro affannoso, mi si avvicina e: “Tenente Dalcich, la prego. Non si ricorda di me ?”. E al mio sincero diniego: “Il suo babbo era amico di mio marito, l’ingegner Pace. Si incontravano a Padova, alla Birreria Italia. La prego, mi aiuti. Mio marito è stato ricoverato in ospedale a Trieste per un attacco di peritonite; non trovo nessun mezzo per raggiungerlo. Laggiù è in partenza una tradotta, la prego, la supplico”. Mi commuove, soprattutto ricordandomi di Padova, Via Cavour, e grazie all’accondiscendenza di un tentennante collega capo scorta, la metto sul convoglio in partenza. Pochi minuti dopo la partenza della tradotta, ecco sbucare, vociando, un gruppo di gendarmi tedeschi che si precipita nelle sale d’attesa, lungo le pensiline, nei gabinetti come nella lampisteria. Cercano qualche disertore, o, peggio, qualche disgraziato ebreo.
(Nel successivo settembre, proprio a Padova, qualcuno mi toccò la spalla e: “Tenente, non si ricorda di me?” Ma certo era la moglie dell’ingegner Pace. “Si benissimo, come sta suo marito ?” Una risata a gola spiegata e: “Non ho marito; ho dovuto ricorrere alla sceneggiata per sfuggire ai nazisti che mi cercavano. Sa, io lavoravo per l’Intelligence Service in quel periodo….”).
GIORDANI – 4 marzo 1945 – Ho anch’io un disertore. Il lazzarone Naccherino è scappato ieri notte dopo aver sabotato il mitragliatore abbandonando il posto di guardia. C’era da aspettarselo e non è servito passare sopra a tante magagne. Sentite questa: fermava i ciclisti, poveri operai, sequestrava arbitrariamente le biciclette e, poi, - mi confida Barbalace – si faceva pagare il “pizzo” per restituirle!
Una vera canaglia, sempre pronto a mettere mano al coltello. Mi pento di non averlo consegnato alla giustizia militare, ma, tanto, credo che difficilmente ne verrà fuori. Se si è unito ai titini, con quella camicia nera, avrà ben poco da sperare. Stanotte, ho dovuto mettere in azione nuovamente l’81 e per motivi più seri dell’ultima volta.
Partigiani della brigata comunista “Budicin” hanno attaccato il caposaldo di Vele Lasi, comandato da Balestra. Si udiva lo sventagliare delle mitragliatrici ed alcuni razzi verdi d’una pistola “Veary” sono apparsi in cielo.
Così ho piazzato il mortaio, ho incodolato le granate col bravo “Scornacchiato” ed ho aperto il fuoco. Avevo le coordinate per il tiro e credo d’aver fatto un buon lavoro.
Dopo un po’ (erano circa le quattro), il rafficare delle armi automatiche si è taciuto ed ho potuto mandare una pattuglia in perlustrazione. Era proprio Vera Lasi, ma i rossi non hanno potuto sabotare la ferrovia, grazie anche al mio intervento.
FIUME – 7 marzo 1945 – Piazza Regina Elena, ore 12.00. Sono protagonista di un episodio rivoltante, indicativo dell’atmosfera che si respira in questa città agonizzante.
Mi sono azzuffato, come un volgare scaricatore di porto, con un passante, e in pieno centro. Ignoro i motivi per cui quel tale, accompagnato da una donzella, si è messo a dileggiarmi, ma avendo i nervi a fior di pelle, si fa presto a perdere la calma.
L’ho raggiunto, ha reagito ed io l’ho scazzottato. Sarebbe finita se ad un certo punto un signore non si fosse intromesso, strattonandomi. Dal “Bar Piva”, è uscito correndo un milite gigantesco, una specie di gorilla, ha agguantato il “signore” e l’ha gonfiato di ceffoni. Una rissa da angiporto e ancora me ne vergogno!
L’intrigante era addirittura il Console Onorario della ND.H. (Stato di Croazia) e Montesi Righetti mi ha inflitto una settimana di arresti, “puntualizzando” che lui non è Porcù.
Questi scontri sono ormai all’ordine del giorno; militari e civili si affrontano, mentre i tedeschi lasciano fare. La Katia, che frequenta certi strambi ambienti zanelliani (autonomisti fiumani) mi avverte di sorvegliare molto bene il babbo, perché (vendetta trasversale?) intendono farla pagare a questi Dalcich, come se non ci pensasse già il monocoluto conte Righetti, che ci ha presi tutti in antipatia.
FIUME – 9 marzo 1945 – Era già prevedibile. Niny, che è stato confinato all’O.P. (Ordine Pubblico) del reggimento, tornando la sera a casa ha udito invocazioni d’aiuto provenire dalla caserma Macchi. Avvicinandosi ha scorto un nutrito stuolo di marinai croati che picchiava un giovane alpino di stanza a Santa Caterina. Male gliene è incorso; circondato dagli slavi ubriachi è stato a sua volta messo sotto e pestato di santa ragione. Temendo per la sua vita è riuscito a sfoderare la pistola ed ha sparato. Liberatosi una prima volta, è corso verso un’autorimessa militare e, strappato il MAB dalle mani della sentinella, ha fatto fuoco più volte.
Conclusione ovviamente tragica: due morti, qualcuno dice quattro, alcuni feriti, nonché immediato arresto di mio fratello. Il Colonnello Montesi, cui mio padre si era rivolto, lo ha messo alla porta con un: “Se suo figlio ha ragione, i tedeschi ne terranno conto”.
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