7 settembre 2011

La tragica e grottesca storia dei "monfalconesi" a Goli Otok, la dannata isola calva...

Nelle quattordici baracche del campo passarono, tra il 1949 e il 1956, circa 30.000 prigionieri. Si tratta in gran parte di militanti comunisti jugoslavi filosovietici, appartenenti a tutte le nazionalità della nuova Jugoslavija. Qui finirono anche numerosi militanti comunisti italiani, considerati filosovietici e stalinisti.
L'isola di Goli Otok vista dalla strada costiera è quella più chiara, di nuda
roccia calcarea. Alla sua destra l'altra piccola isola è invece l'isola di San
Gregorio, già carcere femminile.
Bisogna ricordare che la tendenza filosovietica era ben presente nel movimento comunista capeggiato da Josip Broz Tito. In seguito alla rottura Stalin-Tito del 28 giugno 1948 chi decide di schierarsi dalla parte di Stalin e dell'Unione Sovietica, paga a caro a prezzo la propria scelta con la deportazione sull’Isola Calva. Tra gli italiani il nucleo più consistente è rappresentato dai cosiddetti monfalconesi: circa 2.500 militanti del Partito Comunista Italiano di Togliatti (filosovietico), in larga parte provenienti dai cantieri navali di Monfalcone, che, spinti dai propri ideali avevano deciso tra il 1946 e il 1947 di trasferirsi in Jugoslavija per partecipare alla costruzione del socialismo.

Assorbiti in molti casi nei cantieri navali di Pola e di Fiume, essi si scontrano, dopo un’iniziale euforia, con la dura realtà del dopoguerra scandita da fame, miseria, disorganizzazione e da un modello politico che appare molto lontano da quello vagheggiato e per realizzare il quale hanno deciso di partire. La maggior parte di essi, cresciuta all'interno del PCI italiano di Togliatti - che era e restava filosovietico - decide di schierarsi contro Tito e a fianco di Stalin finendo nel giro di poco tempo nella morsa repressiva del potere titino. Alcuni di essi abbandonano la Jugoslavija riuscendo a rientrare in Italia, dove si trovano non solo sottoposti al rigido controllo della polizia poiché considerati dalle autorità italiane dei pericolosi sovversivi, ma anche emarginati dagli stessi compagni di partito, che gli impongono di consegnare al silenzio la loro drammatica esperienza, condannandoli a una sorta di isolamento politico e di esclusione sociale. Paradossalmente, si tratta dei più fortunati. Per circa trecento monfalconesi, gli esponenti più in vista, il destino ha in serbo una sorte peggiore: arrestati e condannati per attività antijugoslava, sono internati sull’Isola Calva, dalla quale riescono a ritornare dopo lunghi anni e inenarrabili sofferenze. Ma soltanto una parte di essi riuscirà a raccontarle, perché da quel pugno di rocce in mezzo all’Adriatico non tutti riusciranno a tornare vivi.
M'ero imbattuto in questa vicenda leggendo "Tito - genio e fallimento di un dittatore", la biografia scritta dall'inglese Jasper Ridley, che ne fa un breve cenno. Ma solamente nel 1991, con il libro di Giacomo Scotti "Goli Otok - Ritorno dall'Isola Calva" un'intero saggio storico viene dedicato al campo che Tito istituì sull'isola e l'intera vicenda dei monfalconesi viene descritta in modo ampio.
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Da "Terra d'Europa", aprile 2002.
Goli Otok: italiani nel gulag di Tito

Tanti anni fa -in una delle numerose trasmissioni culturali che la Rai offre in notturna- è stata presentata con una serie straordinaria di immagini che contrapponevano la bellezza abbacinante dell'ambiente con la crudezza della confessione di un ex della Isola Calva. Solo da una decina anni, infatti, la vicenda tragica degli italiani nei Gulag della ex-Jugoslavia e, in specifico, quelli di "Goli otok", è tornata alla luce. Una "memoria " di fatti reali e soprattutto un eccidio ideologico che rischiava di restare prigioniero nella memoria di vittime e di aguzzini. Un'altra storia negata.
Tra i libri che hanno contribuito a risvegliare dal sonno quella tristissima (ed anche disumana) memoria, un posto particolare spetta a Giacomo Scotti, il quale con la sua ricerca ( "Goli otok - Italiani nel gulag di Tifo") ed ora con la ristampa a dieci anni dalla prima pubblicazione (1991), presenta a cura della Lint un testo arricchito da significative testimonianze. Ai quattordici capitoli -che vanno dalla premessa sullo scontro nel Cominform fino alla "libertà con la bocca cucita"- si aggiungono appunto alcune testimonianze che meglio di tutto rappresentano il dramma che il libro intende raffigurare. Sono oltre quattrocento pagine supportate da due presentazioni di Arduino Agnelli e Giampaolo Pansa.
Tutto ha inizio appunto con la vicenda del Cominform: lo scontro fra Stalin e Tito (1948) che in pratica "scomunicava la leadership iugoslava " nell'ambito dell'internazionale. La vicenda aveva un riferimento nel Litorale in quanto tra coloro che più tenacemente sostennero le tesi staliniane e diedero filo da torcere ai dirigenti del Partito comunista iugoslavo, furono alcune migliaia di comunisti italiani, simpatizzanti del Pci ed ex-partigiani che nel corso del 1946 e del 1947 si erano trasferiti da Trieste e da Monfalcone e da altre località del Territorio libero di Trieste, ma anche dal Friuli, nella città di Fiume e nelle sue fabbriche. "
Una storia di idee e di uomini che Claudio Magris, nel 1990, definì "sanguinosa nota a pie pagina della storia universale ", diventata una tragedia orribile.
Anche per il silenzio che l'ha accompagnata e l'accompagna: oggetto di strumentalizzazioni e di interessati commenti da utilizzare non per una denuncia al tribunale della umanità, ma per piccole guerre di bande, una contro l'altra, e per il potere.
Il dramma consumato nei confronti di testimoni -che avevano rischiato la vita per quegli ideali e poi lasciato la propria casa per collaborare alla costruzione appunto della società socialista- e comunque di persone umane, merita non solo di essere fatto conoscere alle giovani generazioni, ma di diventare motivo serio di riflessione. Dopo i fatti che il libro di Scotti racconta, tanti altri "Goli otok" o gulak si sono ripetuti, proprio grazie al silenzio o -come dice un altro bel libro recensito in questa rubrica- al "sonno della memoria". Da Monfalcone e non solo verrà un 'occasione o anche un momento di coraggio civile e culturale? La rimozione della storia sta spesso alla base di una incerta identità.
Renzo BoscarolGiacomo Scotti, Goli Otok- italiani nel gulag di Tito. Nuova edizione. Lint Trieste marzo 2002

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Da "La Stampa", Pag. 2, 24/08/2002.
Benvenuti nel gulag di Tito 
Aperta ai turisti l´Isola Calva, dove per anni il regime di Belgrado ha regolato i conti con i suoi avversari 

Il male va in vacanza? Il buio del male - quello con cui gli umani rendono atroce la vita ai loro simili - sembrerebbe incompatibile con la nitida trasparenza di questi giorni d'estate. Con la struggente serenità del Mediterraneo. Con l'armonia di molte sue isole. Sono molti di questi tempi i turisti che in Adriatico transitano sulle rive del Quarnaro. Vale a dire il golfo che si apre davanti a Rijeka (Fiume) e che le isole di Krk (Veglia), di Cres (Cherso), di Rab (Arbe) dividono in tre bracci: il Quarnaro propriamente detto, il Quarnarolo e il canale di Velebit più conosciuto come canale della Morlacca o canale del Maltempo. Ed è proprio in fondo al canale del Maltempo - accanto alle tre isole che colpiscono per la lussureggiante vegetazione - che sta la Goli Otok. Vale a dire l'Isola Calva, posta a poche miglia della verdeggiante Rab e a una ventina di chilometri da Senj, la località di terraferma più vicina. Mai nome è stato più appropriato. Poiché la Goli Otok, nonostante i rimboschimenti attuati negli Anni Sessanta, continua ad essere un dorso roccioso di quattro chilometri quadrati che s'inarca brullo, sino ad un massimo di 230 metri d'altezza, sull'Adriatico. A partire dal 1988 anche quest'isola pietrosa è aperta ai turisti. «Dobrodosli. Welcome. Benvenuti» è scritto sui cartelli che accolgono i visitatori, portati da regolari traghetti in partenza di Rab o da Lopar. Chi scende a Goli Otok, però, solitamente è un turista molto speciale. Sa di essere approdato in quello che probabilmente è stato uno degli infernali buchi neri della storia del Novecento. Un luogo dove, per anni, lontano dagli occhi dell'opinione pubblica e degli osservatori internazionali, il regime di Tito ha regolato i conti con i suoi avversari interni e esterni. Un gulag che con inaudita ferocia, nel cuore degli anni cinquanta, è stato in funzione a poche decine di miglia dalle nostre affollate spiagge adriatiche. O dall'ancor più vicino buen retiro di Brioni, dove il maresciallo jugoslavo riceveva i potenti del pianeta e le bellezze dello star system. Quello che accadeva in quello sperone di roccia sono stati tanti a raccontarlo. Uno dei primi è stato Vento Markovski, un poeta bosniaco (1915-1988) che quattro anni prima di morire vede le proprie memorie di detenuto politico nel gulag titino pubblicate in inglese, col titolo Goli Otok. Island of Death, dalla Columbia University Press. Poco più tardi, nel 1991, arrivano le ricerche e la pubblicazione del libro di Giacomo Scotti, Goli Otok, che - pubblicato dalla triestina Lint - è giunto ormai alla terza edizione. E costituisce il più completo e agghiacciante affresco di quanto è accaduto in quel pezzo d'inferno incastonato in un arcipelago da paradiso. Tanto per approssimarci alla materia vale la pena di ricordare che l'Isola Calva è, sia per l'assenza di insediamenti abitativi che per le difficoltà di approdo (e soprattutto di fuga), un luogo che ancor prima di Tito viene utilizzato come campo di prigionia. Prima di essere un gulag è, durante la grande guerra, un lager. Dove l'imperialregio esercito austriaco custodisce i prigionieri russi più pericolosi. Di quest'isoletta si ricorda un superpoliziotto di Tito, il ministro dell'interno Rankovic, quando - nella primavera del 1949, ad un anno circa dunque dalla rottura tra l'internazionale stalinista (Kominform) di Mosca e il governo di Belgrado - dispone la rapida creazione di un «campo di concentramento da dove fosse impossibile evadere». Lì, nel giro di pochi anni, transitano secondo alcuni funzionari allora in servizio nell'isola, oltre trentamila prigionieri. Di questi più di tremila vi sarebbero morti di stenti. Stremati dalle dieci/dodici ore di lavoro al giorno nelle pietraie (da cui è stato estratto il materiale per le strade e i moli dell'isola). O stroncati dal bojkot, la tortura - che può proseguire per mesi - e che vede a turno, le vittime, diventare carnefici dei loro stessi compagni: «I boicottati - afferma una testimonianza - eseguivano i lavori più duri correndo. Ogni sera passavano attraverso lo "stroj" della baracca, in mezzo ai picchiatori, duecento/trecento prigionieri su due file. Nessuno doveva rivolgere loro la parola. Portavano uno straccio rosso sulla casacca d'estate o sul cappotto d'inverno. Ogni notte dovevano montare la guardia al secchio delle feci..». A questo inferno sono sottoposti uomini di tutte le nazionalità che compongono la nuova Jugoslavia: serbi, croati, macedoni, montenegrini, sloveni. Non mancano gli italiani: meno di un centinaio secondo i dati ufficiali. Più di trecento, invece, secondo una rigorosa ricerca storica che, oltre a rettificare il numero, mette in luce un elemento fondamentale. Ovvero come tutti gli italiani fossero scagliati nel gulag con l'etichetta di «cominformisti». Ovvero comunisti che davanti alla frattura tra Tito e Stalin hanno preso posizione per quest'ultimo. Operando spesso, in maniera clandestina e dentro la stessa Jugoslavia, per far saltare il regime di Belgrado. Insomma una lotta all'ultimo coltello ma svolta tutta tra militanti comunisti che hanno condiviso, in passato, le carceri fasciste e la lotta di resistenza al nazismo. Alle reti cospirative che i cominformisti italiani attivano soprattutto in Istria (nei cantieri navali di Fiume, soprattutto) Belgrado risponde con la feroce violenza dell'Udba, la polizia segreta. Colpiscono non solo i cospiratori ma anche le loro famiglie. Private delle abitazioni. Del cibo. Le mogli indotte a chiedere il divorzio dai mariti. I figli cacciati dalle scuole. Coloro che vengono portati alla Dugi Otok spariscono. Non esistono più, neppure per le persone della loro famiglia. Impensabili le visite. Ma, anche, ogni scambio epistolare. Morti in vita, tra le pietraie dell'isola, i cominforministi che sopravvivono, e riescono a tornare in Italia, per lunghi anni non troveranno neppure le parole per narrare la loro discesa agli inferi. Nell'isola di pietra dove, ancora oggi, il silenzio è diverso da tutti gli altri silenzi.
 

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Da "Il Manifesto, 6 ottobre 2002.
Gli operai traditi da Tito
Friuli Venezia Giulia, dopoguerra. Un migliaio di giovani, ex partigiani e operai, decidono di raggiungere la Jugoslavia. Hanno un sogno, contribuire alla costruzione del socialismo. Ma finiranno nei gulag di Tito. Giacomo Scotti ne ricostruisce la storia
Tra l'inizio del 1946 e la fine del 1947 due flussi "migratori" si incrociano sull'incerto confine che divide Italia e Jugoslavia. Tutti parlano l'italiano pieno di influssi dialettali dell'alto Adriatico, ma lo spirito e le ragioni della migrazione sono molto diversi, quasi opposti. La prima "corrente", più numerosa, parte dalle coste istriane e dalmate e fugge alla "slavizzazione" di quelle terre, portandosi addosso l'accusa di complicità nazionale con il fascismo che in quelle terre ha seminato discriminazioni durante il ventennio di pace e terrore nei cinque anni di guerra. In senso inverso si muove l'altra "corrente", per correre incontro ai propri ideali politici, decidendo di "andare a costruire il socialismo" nella neonata repubblica popolare di Jugoslavia. Dei primi molto si è parlato per cinquant'anni, anche se quasi sempre per rivendicare le terre e le case abbandonate e, propagandisticamente, in chiave anticomunista e razzista. Dei secondi quasi nessuno si è occupato, tanto scomoda era la scelta di quegli italiani che decidevano di vivere nella Jugoslavia di Tito. A loro è dedicato il libro di Giacomo Scotti - Goli Otok, italiani nel gulag di Tito, (Trieste, edizioni Lint, pp. 406, euro 22), giunto alla terza edizione - che racconta la storia degli italiani emigrati in Jugoslavia nel dopoguerra, aggredendo fin dal titolo la sua parte più dura, quella di una sorte quasi beffarda che fa finire molti di loro ai lavori forzati su un'isoletta deserta del Quarnero, con l'accusa di essere spie del Cominform.

Sono chiamati "i monfalconesi", anche se non tutti vengono dalla cittadina dei cantieri navali vicino a Trieste; forse perché molti di loro in quella fabbrica lavorano, forse perché a Monfalcone sotto il fascismo opera la cellula di fabbrica più forte del Pci clandestino. Il 9 settembre del `43 in mille escono da quel cantiere navale e, dopo un breve scontro con la polizia, ancora in tuta da lavoro, salgono in montagna, battezzandosi "Brigata proletaria" per combattere nazisti e repubblichini, in contatto con la resistenza slovena attiva già da più di un anno sui monti del Carso e nella valle dell'Isonzo. La prima battaglia, nei pressi di Gorizia, per loro è un disastro: impreparati e male armati, quasi metà muoiono, una parte sbanda, un'altra viene integrata nelle fila del IX Korpus dell'armata di liberazione di Tito e due anni dopo (il 3 maggio del `45), con quelle divise, entrano da liberatori a Monfalcone, accolti da quella parte della città che chiede l'annessione alla nuova Jugoslavia.

Tramontata quest'ipotesi, incerta la sorte di Trieste, un migliaio di ex partigiani, giovani e operai dei cantieri, spinti dalla disoccupazione e dalla fede politica decidono di lasciare le loro case e di andare a costruire il socialismo in Jugoslavia: Pola e Fiume le principali mete. Lì riprendono a lavorare in fabbrica, "per mettere il proprio mestiere al servizio della causa comune". Ma da subito si scontrano con una realtà diversa da quella che avevano immaginato; poi con la rottura tra Tito e Stalin del giugno `48 tutto precipita.

Sono italiani e si trovano a fare i conti con la diffidenza delle popolazioni slave, per cui l'Italia continua a essere sinonimo di fascismo e discriminazione razziale; sono internazionalisti e si trovano di fronte un partito - quello jugoslavo - impegnato nella difficile unificazione di popoli per secoli divisi puntando sul cemento di una nuova identità nazionale, quella degli "slavi del sud"; sono operai specializzati, molto politicizzati, fieri del proprio mestiere e convinti di poter edificare una società nuova come si costruisce una nave e si misurano con un apparato statale e di partito socialmente segnato dalla realtà contadina delle popolazioni serbe, croate, bosniache. Così quando il Cominform "scomunica" la Jugoslavia di Tito, optano per Stalin - spinti anche dal partito italiano - e non lo nascondono. I funzionari - già diventati burocrati - che da Zagabria vengono a Fiume e Pola per dissuaderli dall'opporsi non li convincono: fino a quando è possibile manifestano pubblicamente il loro "internazionalismo", il "primato della classe operaia". Poi vengono licenziati dalle loro fabbriche e dispersi: alcuni decidono di tornare in Italia - dove il Pci li mette ai margini o li ignora - altri vengono deportati in Bosnia per il "lavoro volontario" in cave e miniere. Alcuni, i più in vista, dopo processi sommari con l'accusa di tradimento e spionaggio al servizio del Cominform, finiscono a Goli Otok, il campo di concentramento aperto nel luglio `49. Lì incontrano i protagonisti di una seconda fase dell'opposizione comunista italiana a Tito, i cominformisti veri e propri, un piccolo manipolo di militanti che a Fiume fondano persino un'organizzazione clandestina, chiamata "Comitato circondariale di Rijeka del Partito comunista internazionalista jugoslavo"; un'entità virtuale, che non riesce mai ad andare al di là di piccole azioni di propaganda (volantini e giornali che arrivano da Trieste in valige a doppio fondo, su indicazione di Vidali) e viene presto smantellata dalla polizia segreta jugoslava. Insieme con altre migliaia di ex militanti del Pc jugoslavo - tra essi anche alcuni importanti dirigenti e generali dell'armata di liberazione - schieratisi col Cominform e contro Tito.

Il gulag di Goli Otok rimane un carcere politico fino al `56, poi con la normalizzazione dei rapporti tra Jugoslavia e Urss dopo la morte di Stalin, si riconverte in carcere per detenuti comuni e i "politici" sopravvissuti vengono progressivamente liberati. Giacomo Scotti, attraverso le testimonianze, le memorie e i documenti ufficiali stima che circa 30.000 prigionieri politici furono detenuti sull'"Isola calva" e che quasi 4.000 vi morirono, per stenti o torture. Il suo libro non segue un rigoroso filo cronologico, in esso le testimonianze e i documenti ufficiali si rincorrono per comporre un quadro drammatico non tanto nelle dimensioni del fenomeno quanto nella sua portata politica e morale.

Scotti, che conosce bene la storia degli italiani emigrati in Jugoslavia per scelta politica essendo uno di loro, in questo libro coraggioso non cede alla tentazione della propaganda; esattamente come i protagonisti della persecuzione politica non si pente della scelta fatta, ma con altrettanto rigore documenta e denuncia una delle tragedie della sua (e nostra) storia. Proprio per rispetto a quella storia, alla vicenda di migliaia di militanti stritolati dalle leggi della geopolitca. Perché Tito ha mille ragioni per opporsi a Stalin e cementare su quella rottura una nuova identità nazionale e un nuovo assetto statale (quando entrambe crollarono si capì bene l'importanza e, al tempo stesso, la fragilità di quel "miracolo" politico che è stata la Jugoslavia del dopoguerra), ma nel farlo sacrifica la vita di migliaia dei "suoi", affermando quella discriminazione che intende negare: il nazionalismo jugoslavo serve a combattere i nazionalismi croato e serbo, ma riproduce, verso "gli altri", le stesse dinamiche etnocentriche; la battaglia contro lo stalinismo e il culto della personalità di Stalin dà vita a un nuovo autoritarismo e a un nuovo culto della personalità. E anche a causa di ciò l'autogestione fallirà. Il dito mignolo - che Stalin pensava bastasse a mettere in riga il ribelle Tito - ci appare ora come una metafora di una persecuzione politica che ricorda - in sedicesimo - quella delle purghe e dei gulag staliniani: la Jugoslavia del primo dopoguerra perde la scommessa della democrazia socialista abbattendosi su quegli "stranieri" arrivati lì in nome della rivoluzione e della solidarietà internazionalista. Tre decenni dopo la chiusura di Goli Otok, il "miracolo di Tito" si sfalderà anche per aver perso quella scommessa.

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