22 luglio 2019

Paolo di Canidole

Una storia di orgoglio, spirito indipendente e selvatichezza anarchica, ben raccontata da Claudio Magris nel suo magistrale "Microcosmi".
Le due piccole e dimenticate isole di Canidole
sono ancora più piccole della piccola Sansego.
"Agli inizi degli anni Cinquanta, la Repubblica Federale di Jugoslavia, da poco signora di quelle isole, lo aveva richiamato per il servizio militare. Paolo considerava già un sopruso i quattro anni passati al fronte – nonostante fosse l’unico sostegno della madre vedova – per l’opinabile gloria del Duce e dell’Impero, grazie alle cui iniziative la sua isola aveva cambiato bandiera. Si era rifiutato di presentarsi alle autorità militari jugoslave ed era rimasto a casa, ad assistere la vecchia madre. La polizia, venuta a prenderlo, non lo aveva trovato, perché si era nascosto; era sbarcato allora un reparto dell’esercito, che aveva setacciato a ventaglio e invano un isolotto di 1,2 Kmq, mentre Paolo, nascosto – in dicembre – in mare, fra gli scogli, tenendo fuori dall’acqua solo gli occhi, aveva osservato le infruttuose ricerche.

Il paese aveva assistito muto alla caccia, con l’istintiva ostilità della selvaggina verso i cacciatori; il maestro elementare, interrogato, aveva replicato che lui, se faceva il maestro, non poteva fare anche il poliziotto e tale risposta viene ancora citata, fra le isole, con precisione filologica. Il comandante del reparto, rientrato alla base, aveva comunicato che Paolo non si trovava a Canidole, ma Paolo di Canidole aveva mandato a dire che lui, sull’isola, c’era. Più tardi – ma qui i racconti si facevano confusi – l’autorità militare jugoslava, dimostrando un’intelligenza benevola che raramente si associa al potere, era venuta – tramite i buoni uffici di un
comprensivo tenente – a un onorevole compromesso col suo antagonista, che aveva accondisceso a un breve periodo di richiamo.

Paolo aveva tenuto in iscacco la polizia e l’esercito, un esercito che aveva vinto i tedeschi e conquistato la Venezia Giulia.
Quando, alcuni giorni dopo, un’altra barca ci portò a Canidole, l’idea di cercarlo venne a Beppino Bevilacqua, saggista di grande classicità e gastronomo puntiglioso, ma soprattutto grande narratore orale, un “Tusitala” (raccontatore di storie) di Oderzo, come Stevenson era, nel linguaggio dei polinesiani, un Tusitala dei mari del Sud. Non indossavamo divise e non ci era quindi difficile, fra poche case e dodici persone, trovare Paolo. Era vecchio, molto più invecchiato della sua età, con la barba incolta e il corpo oscillante per un continuo tremito; dietro gli occhi c’era un occhio solo e lui si puliva, con un gesto continuo e incerto, uno spurgo nella cavità dell’occhio mancante. Era gentile, compiaciuto e indifferente. Ripeteva la sua storia con le stesse parole del barcaiolo, compresa la famosa dichiarazione del maestro, come se anch’egli l’avesse appresa da lui e imparata a memoria.
Eravamo avvolti nell’aura di quelle lontananze struggenti, di quel mare incorruttibile dinanzi al quale si poteva credere di essere ancora Dèi, di essere immortali. Quel mare e quelle isole erano un incanto perfetto, così intenso da essere quasi insostenibile, perché non siamo Dèi e non possiamo reggere più di un istante al confronto con l’assoluto. Pensavo al “Viaggio in paradiso” di Musil, nel quale i due amanti vivono, in riva al mare, un momento totale, ma non reggono all’intensità di quell’incanto e hanno bisogno di tornare alla banalità, alla futilità, alla volgarità dell’imperfezione. Intanto l’eroe di Canidole, scosso dal suo tremito, raccontava di come avesse perduto fra le canne l’occhio di vetro e di come anche la vista dell’altro andasse cedendo. Quando gli chiedemmo se avesse il diabete, Paolo rispose in tono incoraggiante, compiaciuto per l’acutezza diagnostica: Sì, ecco, bravi, bravi, proprio diabete, giusto, bravi. E riprese a parlare del fico, le cui radici avevano danneggiato la cisterna, e che avrebbe dovuto tagliare. L’eroe di Canidole attendeva, opaco, la morte e, prima, la probabile cecità, perché non c’era nessuno, sull’isola, che potesse fargli le necessarie iniezioni di insulina. Un’anonima eutanasia, lenta e sicura, stava provvedendo all’ex-eroe, ormai inutile a qualsiasi società. Guardando quel vecchio, che aveva sfidato un esercito e non riusciva più a radersi, si capiva che è invitabile dimenticarsi di essere stati Dèi.
Ma nel suo torpido abbandono alla distruzione c’era qualcosa di regale, la tranquillità. Sul viso intimidito della moglie, che ci teneva a distanza e offriva quasi con timore una brocca d’acqua frasca, si leggeva invece soltanto un’antica sottomissione al basto e alle percosse della vita, una gentilezza spezzata, la spenta rassegnazione di chi non ha avuto il suo giorno, di chi non ha avuto niente. Quel volto, che confutava ogni stolta nostalgìa del tempo antico e dell’idillio patriarcale, spezzava l’armonìa di quel mare e di quel cielo perfetto; l’attimo di pianto che salì agli occhi di chi mi stava vicino era come la lacrima di Achab, il capitano di “Moby Dick”, che scivola nel Pacifico e di cui Melville dice che essa vale più di tutte le ricchezze del fondo dell’oceano."

(Claudio Magris-Giuseppe Bevilacqua, "Itinerari dell'Adriatico", Bari: Palomar, 2007)

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