5 maggio 2012

La toponomastica, ossia il nome dei luoghi

A pensarci bene, mi viene spontaneo dire Fiume, Pola, Abbazia, Zagabria. Così come quando, riferendomi alla città tedesca sul fiume Meno, dico Francoforte sul Meno e non Frankfurt am Main.
E' normale: quando c'è la versione italiana, si usa quella e si dice Parigi, non Paris. Oppure Londra, non London. E quando non c'è, si usa l'originale: New York, per esempio. Ma se c'è la versione italiana, nessun si sogna di indicare un luogo usando entrambe le versioni, tipo Pechino-Beijīng o Beijīng-Pechino.
Quando non c'è di mezzo il nazionalismo queste cose sono ovvie; da noi accade tranquillamente nelle zone francofone del Piemonte e della Val d'Aosta, dove i toponimi francesi sono diffusissimi e accettati come "veri" da tutti.
Eppure c'è un malinteso senso del politicamente corretto che ci spinge, quando parliamo dei territori della ex-Jugoslavija (o Yugoslavia?) ad usare la doppia denominazione. Forse per il senso di colpa che ci portiamo dietro dopo le prodezze colà compiute dai nostri fascisti a danno delle popolazioni slovene, croate, serbe, etc. nel corso del Novecento? Sensi di colpa sciocchi, per noi che fascisti non siamo.

Diverso è il caso dell'Alto Adige-Sudtirol, terra tedesca per lingua, tradizioni, cultura dove città, fiumi, montagne avevano il loro nome, uno solo ed era tedesco. Ma il fascismo (ancora lui) li ha sostituiti da un giorno all'altro con versioni italiane o latineggianti, spesso inventate di sana pianta. Il tutto in un quadro di italianizzazione forzata che voleva cancellare l'identità di popoli e luoghi. Quando vado in montagna da quelle parti tocco con mano l'assurdità di quei nomi posticci, e per questo mi sembra meglio fare uso della dizione doppia (per esempio Egna-Neumarkt) in attesa che le destre italiote si arrendano all'evidenza e diano finalmente l'OK alla riadozione dei nomi tradizionali, quelli spontaneamente emersi attraverso i secoli.

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